Il giacobinismo che avvelena la Costituzione

Egregio Dottor Granzotto, vorrei tornare nel merito di una sua risposta ad un lettore di qualche giorno fa, in cui Lei citava l’articolo 67 della Costituzione che dice appunto che «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Che ogni parlamentare rappresenti la Nazione è ineccepibile, ma che dire delle rimanenti parole dell’articolo? Mi saprebbe spiegare come mai nella nostra Carta costituzionale è stata inserita una frase così pazzesca, che nella pratica diviene fondamento ed appiglio di ogni disegno ribaltonisitico e che a mio avviso stride con le parole dell’articolo 1 della Costituzione?
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Il divieto del mandato imperativo è uno dei tanti successi del pensiero e dell’azione giacobina, caro Bonfiglioli. Come lei sa i giacobini non riponevano - diciamo pure che non ripongono, perché il giacobinismo è vivo e vegeto - nessuna fiducia nel popolo, che accusavano di credere di non volere quel bene, quella legge, quell’ordinamento - ciò che gli conveniva, insomma - che invece, somma di babbei che altro non è, voleva senza sapere di volerlo. Naturalmente i giacobini si piccavano (si piccano) di averlo invece ben chiaro in mente presentandosi di conseguenza non come interpreti della volontà popolare, sempre o quasi sempre mal riposta, ma del Bene Supremo del popolo. Il concetto di «popolo bue» nasce allora, nasce con la stagione giacobina, ed è evidente che a un popolo bue non si affidano le sorti dello Stato democratico consentendogli, con lo strumento della delega imperativa, di condizionare il mandato di quell’essere superiore che diventa l’eletto. Padre di questa clausola iugulatoria del regime parlamentare fu l’abate Sieyès, la mente della Rivoluzione francese. Un giacobino - c’è da dirlo? - che, oltre a fornire gli strumenti politici e intellettuali ai rivoluzionari, prese attivamente parte agli eventi fino a diventare la personalità più influente del Direttorio. In quella veste brigò, assieme a Fouché, il boia di Lione, per far fuori Robespierre, ciò che avvenne col colpo di Stato del 18 brumaio e la morte per ghigliottina dell’Incorruttibile. Napoleone ricompensò poi l’intrigante, subdolo e doppiogiochista abate conferendogli il titolo di Conte dell’Impero. Il quale riuscì a sopravvivere - lui accusato di regicidio - anche alla Restaurazione morendosene nel proprio letto alla bella età di 89 anni. E lasciando in eredità ai nostri Padri costituenti l’articolo 67, un obbrobrio che umilia i cittadini scippati di quella sovranità eppure conclamata nel primo articolo della «Costituzione più bella del mondo». Salvo poi, tolto di mezzo il popolo sovrano, imporre a ogni eletto un vincolo «di Palazzo» ingiungendogli, in stridente contraddizione con l’articolo 67, di iscriversi, appartenere, militare in un gruppo parlamentare. Qualcuno ha provato, caro Bonfiglioli, a convincere deputati e senatori a rivederlo, quel liberticida articolo. Ipotizzando la decadenza dei parlamentari che avessero aderito a uno schieramento o ad una coalizione diversa da quella nell’ambito della quale fossero stati eletti. E sostituendoli coi primi non eletti (nel caso di sistema elettorale proporzionale) o ricorrendo a elezioni suppletive, in caso di voltagabbana eletti col maggioritario. Ma non si è mai andati oltre le buone intenzioni.

E c’è da capirli, gli eletti dal popolo: ragionando ormai e per la gran parte in termini di potere, senza vincolo di mandato possono meglio mettere a frutto, con ricatti e ricattucci, il loro ruolo di rappresentanti della Nazione (quella la cui bandiera, sosteneva Leo Longanesi, porta scritto nel bel mezzo: «Tengo famiglia». E qualche volta anche più d’una).

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