Cronaca locale

Gioca e vince 4 miliardi, ma la mafia gli chiede il pizzo del Superenalotto

La vittima, originaria di Gela, vive in Lombardia Due famiglie siciliane gli hanno estorto 400 milioni

È la vincita che può cambiarti la vita ma può anche trasformarla in un inferno. Perché tenere nascosto di avere centrata la combinazione vincente al Superenalotto non è facile per nessuno. E insieme alle congratulazioni di amici e parenti, possono arrivare le pretese di chi - con le buone o con le cattive - vuole mettere le mani su una parte del malloppo.
Da venerdì scorso, cinque malavitosi legati alla mafia siciliana sono imputati di estorsione davanti al giudice preliminare Franco Cantù Rajnoldi: e dietro c’è proprio la storiaccia di una vincita al Superenalotto. È una storia che si svolge tra la Sicilia e la Lombardia. A Gela, in provincia di Caltanissetta, è nato 42 anni fa l’uomo che azzecca la combinazione vincente. Ma è in Lombardia che l’uomo vive da molti anni, è in Lombardia che vince, e che viene «agganciato», ed è qui che deve versare il «pizzo» sulla sua vincita. Non aveva scelta: per costringerlo a pagare si sono alleati i boss di Cosa Nostra e degli «stiddari», le due fazioni della mafia gelese che da sempre si massacrano tra di loro.
Nei giorni scorsi il pm Marcello Musso ha depositato agli atti i verbali di due nuove «pentiti» che confermano come andarono le cose. Ma la ricostruzione più chiara continua a essere quella messa a verbale - dopo tentennamenti vari - dalla vittima, Salvatore Spampinato. «Ho avuto la vincita al Superenalotto, ammontante a circa 4 miliardi e 50 milioni (di vecchie lire, ndr); nell’agosto 1998, a vincita già incassata, mi sono recato a Gela per le vacanze estive; mentre mi trovavo a Gela è stata incendiata la casa di mio suocero, ne era seguita una telefonata anonima minacciosa e dal contenuto estorsivo (...) rispetto alle precedenti dichiarazioni devo precisare che effettivamente in quell’agosto 1998 mentre ancora mi trovavo a Gela, tramite un lontano parente di mia cognata, sono stato “invitato” a recarmi con il motorino in una casa di Gela, dove su di un terrazzo mi sono incontrato con Trubia Rosario che in paese dicevano essere soprannomimato “Nino D’Angelo”, il capo del paese di Gela, il boss. Lui si è fatto spiegare la mia situazione, mi ha detto che vi erano due sponde, e cioè sia il gruppo degli stiddari di Gela sia il gruppo Madonia che volevano i miei soldi perchè avevano saputo della mia grossa vincita, al Nord. È stato Trubia a dirmi di rivolgermi a “quelli di su”, e cioè ad Argenti Emanuele, per farmi dire come dovevo comportarmi per le modalità di pagamento (...) In occasione del mio primo incontro Argenti mi ha tranquillizzato dicendomi che sapeva che avevo avuto dei problemi a Gela, nel senso che sapeva dell’incendio della casa, e che non dovevo preoccuparmi perché mi avrebbe aiutato lu a risolverli (..) la pretesa iniziale era di un miliardo di lire, poi scesa a 700 e poi a 500 milioni. Alla fine loro, e cioè Argenti, Trubia e gli stiddari hanno concordato la somma definitiva di 400 milioni». «Mi è stato detto di portare i primi 200 milioni in una via del paese di Sant’Angelo Lodigiano, lungo quella via vi erano dei bidoni della spazzatura con alle spalle una villetta. La villetta aveva la buca del pane, e cioè una sorta di nicchia dove il panettiere deposita il pane. Argenti mi ha detto di lasciare i soldi in quella nicchia dove qualcuno sarebbe passato a prenderli (...) ».

E così avvenne.

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