Le giravolte del governo sugli immigrati

Paolo Armaroli

Le nostre nevrotiche politiche sull’immigrazione hanno oscillato di continuo come un pendolo. La legge 5 febbraio 1992 n. 91 eleva da cinque a dieci anni il tempo necessario per l’acquisto della cittadinanza da parte dello straniero che risiede legalmente nel territorio della Repubblica. Una disposizione legislativa restrittiva più che giustificata in un momento in cui l’immigrazione rischia di diventare un fenomeno preoccupante sotto i più diversi aspetti. Adesso il Consiglio dei ministri ha fatto marcia indietro dopo ben tre lustri, a dispetto del fatto che l’immigrazione aumenta di anno in anno. E ha approvato un disegno di legge che riduce tra l’altro il numero di anni previsto dalla normativa vigente da dieci a cinque. Insomma, si torna al punto di partenza in un contesto ben più problematico che ha spinto i Paesi europei a darsi regole precise.
Il tema, del resto, non è nuovo. Nell’arco temporale predetto sono fioccate a ogni legislatura iniziative legislative concernenti o il voto agli immigrati extracomunitari o l'acquisto della cittadinanza. Ma nessuna di queste proposte di legge è mai arrivata nelle aule parlamentari. Data la complessità della materia, non si è mai andati al di là dell’esame da parte delle commissioni competenti. E, chiamati a decidere tra l’una e l’altra alternativa, i nostri beneamati parlamentari si sono comportati un po’ come l'asino di Buridano. Pensa e ripensa, alla fine non ne hanno fatto niente. Insomma, hanno fatto la «mossa» e poco più. Il diritto di voto agli immigrati comporta una legge di modifica dell’articolo 48 della Costituzione, a norma del quale «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età». E tutto ciò comporta ovviamente tempi lunghi e possibilmente larghe intese. Mentre modifiche relative all’acquisto della cittadinanza non richiedono procedure aggravate e perciò in teoria tutto è più facile.
Sbaglieremo, ma abbiamo l’impressione che il ministro dell’Interno Giuliano Amato, autore della bella pensata, intenda ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Il massimo risultato, perché è tutt’altro che irrilevante aumentare di anno in anno in maniera cospicua il numero dei cittadini italiani, con tutte le ombre possibili e immaginabili. E il minimo sforzo, perché con una semplice legge ordinaria nel giro di pochi mesi sarebbe possibile giungere al traguardo. E poiché a occhio e croce non durerà di qui all’eternità, se il governo Prodi riuscirà a perseguire questo obiettivo in tempi brevi se non altro dimostrerebbe di non essere ancora arrivato al capolinea. Che poi questa legge possa creare più problemi di quanti intenda risolverne, è un altro paio di maniche. Con il quale sarà tenuto a fare i conti il successore del Professore.
Supponiamo che Amato, da quel dottor Sottile e valente costituzionalista che è, abbia gettato sul tavolo questa carta anche per metter fine alle castronerie di una sinistra che a livello comunale, provinciale e regionale aveva la bella pretesa di concedere il diritto di elettorato attivo e passivo agli immigrati extracomunitari grazie a norme ad hoc inserite nei rispettivi statuti. Castronerie impietosamente liquidate dalla Corte costituzionale come acqua fresca, prive di qualsiasi valenza normativa. Questa sinistra un giorno sì e l'altro pure inneggia alla Costituzione del 1948 e demonizza quanti vorrebbero migliorarla. Ma non ha remore a gettarla senza patemi nel cestino della carta straccia qualora essa intralci i suoi mirabolanti piani cuciti con furberie di infimo ordine. Non ultima, adesso coltivata più che mai, la speranza di trarne un vantaggio elettorale. Tutto può essere, intendiamoci. Ma non sarebbe la prima volta che apprendisti stregoni restano vittime dei loro sortilegi.


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