Giudici, salotti e Grandi fratelli

Giorgio Oldoini

Una cosa molto curiosa è accaduta nel nostro Paese senza che ce ne accorgessimo. In un sistema in cui indipendenza e autonomia sono diventate parole d’ordine, si è giunti alla conclusione che l’individuo non ha alcun valore se non appartiene a un gruppo. Possedendo un’organizzazione, la gente crede di avere potere: è il senso di appartenenza a qualcosa di più grande che rassicura, dà l’impressione di contare di più e spesso permette di contare davvero. Frequentare il salotto che conta è la forma più vecchia di fare lobbismo; è certo tuttavia che una cosa è iscriversi a qualche loggia massonica o all’Opus Dei, altra cosa doveva essere il partecipare alle cene di Madame De Tencin nella Francia del XVIII secolo, ove poteva capitare di sedersi vicino a uomini come Fontenelle, Montesquieu, Marivaux, Prevost, Helvetius, Chesterfield.
La reputazione del potere, è già potere in sé, in quanto attira l'adesione di coloro che hanno bisogno di protezione: i sottomessi, i sottoposti, i clientes da una parte, i patrones dall'altra. Il successo dei ricorrenti tentativi di piazzare i fratelli nei posti di comando, si deve all’abilità dei maestri di farsi credere indispensabili per favorire le carriere di qualche primario, titolare di cattedra, burocrate o giornalista. La forza delle cosiddette correnti della magistratura deriva anche dalla reputazione di saper gestire al meglio i giudizi disciplinari. I reclutatori devono dunque millantare per mestiere, allo scopo di condizionare le platee e ricevere i mandati di rappresentanza degli interessi. Il seme che gettano a piene mani è l’idea che senza di loro nulla può accadere: l’obiettivo finale è la situazione di controllo di tutti i competitori. A quel punto, chiunque vinca deve pagare il corrispettivo previsto senza che i reclutatori debbano muovere un dito.
È senz’altro questa la tecnica utilizzata nel grande business del calcio: la Gea, assumeva mandati dai giocatori che cercavano sistemazione e riusciva a catalizzare consensi condizionando (e comunque facendo credere di poter condizionare) gli arbitraggi e, per questa via, i presidenti dei club. Vittorio Emanuele, quando distribuiva medagliette nobiliari per fare proseliti o affermava via etere di corrompere uomini delle istituzioni in grado di agevolare i propri affari nell’interesse di adepti e coadiuvanti, millantava o delinqueva? In un sistema di diritto, l’inquirente deve dimostrare l’episodio truffaldino (il fatto corruttivo, l’effettiva dazione, l’organizzazione malavitosa) senza riguardo per le intercettazioni che, salvo casi eclatanti, devono servire come base per l’indagine ma non assurgono al rango di prova. Il che significa cancellare dagli atti la spiata telefonica non suffragata da elementi certi ed inoppugnabili, un aspetto che solo il magistrato (e non il giornalista) è in grado di gestire. Per questa ragione, la divulgazione delle intercettazioni, può rappresentare una sconfitta della giustizia, che rischia di pesare come un macigno sulla credibilità degli inquirenti. Questa prassi, risponde alla teoria secondo cui, dal momento che i tempi dei processi in Italia sono troppo lunghi e i casi di prescrizione frequenti, l’unico modo per far scontare la pena e attenuare l’idea diffusa dell'impunità è quello di pubblicare tutto e magari arrestare l'imputato prima del processo.
L’aspetto positivo della divulgazione diarroica è quello di far fuori qualche organizzazione camorristica, svergognandola agli occhi del grande pubblico.

L’aspetto negativo è quello della mancata selezione dei fatti costituenti reato rispetto alle comuni millanterie e debolezze umane. Qualunque sia la direzione verso la quale si guarda, è certo che uscire dalla cultura del Grande orecchio, rappresenta il primo passo verso una democrazia autentica.

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