Per gentile concessione della casa editrice Baldini Castoldi Dalai Il "Giornale" pubblica in anteprima, senza svelarne l’avvincente finale, alcuni stralci del racconto di Giorgio Faletti "Una gomma e una matita". Un famoso disegnatore di fumetti si rifugia su un’isola greca per scappare dalla donna che gli ha spezzato il cuore e rubato il patrimonio. La villa in cui va ad abitare nasconde, però, un mistero, un’incredibile e magica arma di vendetta... Il racconto apre il volume Pochi inutili nascondigli (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 376, euro 17,90) che sarà in libreria a partire dal 6 maggio.
«La casa è piuttosto strana, però di qua la vista è stupenda!»
In piedi sulla soglia, Marco si girò verso la sorella. Stava ritta sulla scogliera che precipitava a picco nel mare, una ventina di metri oltre il piccolo giardino delimitato da un muretto bianco.
«Sei sicuro che vuoi startene qui tutto da solo?»
C’era un’apprensione quasi impercettibile nella sua voce ma ben più pesante nel suo sguardo.
Marco ebbe uno sbuffo interiore di tenerezza e abbracciò la ragazza, attirandola verso di lui. Martina gli appoggiò il capo su una spalla. Visti da lontano, sembravano più una coppia di innamorati in vena di effusioni che fratello e sorella.
«Non ti preoccupare, starò benissimo. Questa è esattamente la situazione che cercavo».
Alzò il viso della ragazza mettendole due dita sotto il mento. «Se c’è un rimedio a ogni cosa, sento che il mio sta qui, in questo posto. Non ti so dire su cosa è basata questa convinzione, ma c’è. Ed è tutto quello che mi serve, in questo momento».
Si sciolse dalla stretta e la portò al suo fianco, tenendole un braccio sulle spalle. Archiviò quel momento di confidenze assumendo un tono scherzoso.
«Vieni, andiamo a vedere se c’è la possibilità di farci un caffè. Sempre che ci sia qualcosa che assomigli a una caffettiera, qui dentro».
Tenendosi abbracciati oltrepassarono la soglia e furono nella casa \
Martina accese una sigaretta e soffiò insieme fumo e parole.
«Che cosa hai intenzione di fare, adesso?»
«Quello che stai facendo tu. Accendere una sigaretta e fumarla.»
Martina ebbe un piccolo gesto d’insofferenza. Naturale che fosse così. Quando Marco ci si metteva era, era...
«Sbagliato.»
«Sbagliato cosa?»
«Atteggiamento sbagliato.»
Marco guardò Martina come se non la vedesse.
La donna sporse il braccio attraverso la tavola e gli toccò la mano con la mano.
«Ehi, ti ricordi di me? Sono tua sorella Martina. Siamo in Grecia, a Mykonos, e io ho fatto il diavolo a quattro per convincerti a farti la barba e portarmi a cena in un vecchio mulino con un pellicano come maître.»
«Scusa. Rifai la domanda.»
«Ti preferisco sciatto ma loquace, se devo scegliere. Che farai ora?»
«Non lo so. Cercherò ancora, credo. L’ho sempre fatto.»
Alzò le mani aperte all’altezza del viso.
«Le mie mani non hanno niente, penso di sapere ancora disegnare. Qualcosa di nuovo verrà, è solo questione di tempo.»
I due si guardarono. Avevano gli stessi occhi e negli occhi la stessa pena.
Spiros servì loro due bicchieri di ouzo e Martina sorseggiò insieme anice e ricordi.
«Quando eravamo piccoli eri magico per me.»
Martina bevve un sorso di liquore e si prese un attimo per trovare le parole giuste.
«Eri il tramite fra la mia fantasia e la realtà. Qualsiasi cosa mi venisse in mente, potevo venire da te e dirtela e bastava che tu prendessi un foglio di carta e una matita per vederla apparire. Credo che per un po’ ho anche pensato di sognare direttamente nella tua testa e tenevo il fiato ogni volta per vedere se il miracolo si ripeteva.»
Marco sorrise.
«Ti ricordi quella volta che disegnai il mostro che ti eri inventata e che ti fece talmente paura che dovetti strappare il disegno?»
Martina pensò con tenerezza ai mostri delle sue fantasie di bambina. La realtà disegna a volte mostri ben peggiori e quando succede non si può strappare il disegno perché tutto finisca.
C’era stato un periodo in cui tutto pareva immobile nella sua perfezione, come se il tempo non fosse in movimento ma fissato sulla cartolina di un’estate felice. La casa, i genitori, il rapporto con Manuel, il fratello più vecchio, già quasi adolescente. E poi loro due bambini, i giochi e la complicità, l’incanto e il talento di Marco che disegnava cose (battaglie e fiori e personaggi strani) e la sensazione che tutto sarebbe rimasto così per sempre.
«Se non vuoi dirmi dove sei, almeno mandami una cartolina.»
La voce di Marco la riscosse dai suoi pensieri. Sorrise e ritornò ai suoi piccoli mostri di bambina.
«Già, come si chiamava l’orrendo essere?»
«Non mi ricordo. Però mi ricordo com’era fatto il mostro. Se vuoi stanotte te lo disegno di nuovo così vediamo se l’effetto è lo stesso.»
«Per l’amor di dio, no. Non voglio correre rischi.»
«Paura?»
«La paura peggiore è quella di scoprire che non sono cambiata per niente e che ancora quel disegno mi terrorizza. Sai che smacco alla mia maturità?» \
Su in alto, sopra le loro teste, stelle a milioni, lucenti come
occhi di gatto in un cielo di luna nuova.
La strada fece una svolta e poco dopo la svolta, la casa.
Prima di uscire avevano lasciato accesa la luce sopra il portone d’ingresso e nelle stanze al piano superiore e ora la casa li guardava dal buio, con due stupiti occhi di finestra spalancati nell’oscurità.
Martina si fermò.
«C’è qualcosa che mi mette a disagio in quella casa. Mi fa un po’ paura.»
Girò il viso verso Marco e i suoi occhi brillavano nella penombra. Il riflesso delle stelle proiettava nei suoi occhi costellazioni di pena.
«Credo che non ci starei volentieri da sola.» \
Se solo Martina avesse saputo quello che era successo quando aveva visto le foto della casa.
«Strano che una costruzione dall’apparenza così innocua ti metta paura. E dire che non l’ho nemmeno disegnata io.»
Circondò con il braccio le spalle della sorella e l’attirò a sé, cercando con quel contatto fisico di sollevarla dall’apprensione che stava trasmettendo anche a lui. \
Si fermò un istante sull’ingresso, all’estremo limite del cortile e successe di nuovo.
Sentì arrivare da lontano un’ansia rotolante
(ancora l’eco lontana lontana imprecisa voce che diceva cose che non riusciva a capire a decifrare)
e la luce resa biancastra dalla rifrazione prese a vibrare al suono del suo respiro di colpo affrettato. I contorni lentamente si sfumarono e il tremolio gli offuscò la visuale. Era come se dal terreno salissero soffi di aria umida, come se sotto il cortile ci fosse una enorme sacca di vapore che cercasse di farsi strada e attraverso mille piccole ferite sanguinati, mille piccoli soffi d’aria, volesse unirsi all’azzurro del cielo.
Vide le finestre e le porte inclinarsi leggermente verso sinistra, fuori asse, mentre una parte di lui conservava la percezione che niente di quello che vedeva o sentiva stava avvenendo davvero nella realtà (l’eco più forte la voce era vicina alonata ma sempre più forte nella sua testa nelle sue orecchie la voce diceva...)
Come tutto era cominciato finì.
Rimase ansante a guardare la casa immobile, bianca e beffarda, ascoltando il suo respiro. Si toccò la fronte con la mano e la ritirò umida di sudore.
Ivana.
Doveva uscire da quello che lei era stata e da quello che gli aveva fatto. \
Aprì la porta e si trovò davanti a una scala che si perdeva nel buio. Salì i primi gradini senza nemmeno cercare l’interruttore della luce. Sapeva che non l’avrebbe trovato e, senza riuscire a darsi una spiegazione, sapeva che non ce ne sarebbe stato bisogno.
Era la vibrazione stessa che gli dava la luce mentre gli tracciava il percorso. Alla fine della scala si trovò a camminare su un pavimento di legno. Sentì le assi cigolare sotto i passi
i miei forse?
e si vide arrivare davanti a un mobile strano al centro della stanza, un cilindro di legno chiaro, lucido, con un piano di mosaico bianco e nero, nel quale non si vedevano cassetti o sportelli.
E invece c’erano e il mobile non era rotondo, era quadrato
chi ha detto rotondo?
e c’era un cassetto e lui tese la mano, prese la maniglia e tirò.
Con un rumore strano ma senza alcun rumore il cassetto si aprì e Marco per la prima volta le vide.
Appoggiate sul piano di legno odoroso c’erano una gomma
e una matita.
Marco vide la sua mano in una soggettiva tremolante chiudersi e stringerle in pugno e ancora la voce bisbigliare soddisfatta nella sua testa
i tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi...
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