La grande bufala della nave dei veleni

Magari - e purtroppo - da qualche altra parte sui fondali del Tirreno una nave più o meno carica di veleni ci sarà davvero. Ma ormai tre cose sono sicure. La prima è che non è il relitto che per un mese e dieci giorni ha riempito i giornali, animato dibattiti, turbato i sogni e i bagni della brava gente di Calabria: non è, insomma, la temibile «Cuski» carica di veleni di cui il superpentito Francesco Fonti ha parlato con i magistrati, giurando e stragiurando di averla affondata su ordine dei clan. La seconda certezza è che fino a 300 metri di profondità non c’è traccia di radiazioni. La terza, altrettanto sicura, è che tutta questa agitazione si poteva risparmiare fin dall’inizio se si fosse tenuto conto della fonte da cui arrivava la rivelazione.
Perché Fonti non è un «pentito» qualunque. È uno che le spara grosse (noto nell’ambiente come «l’aggiustatore»). Uno le cui balle hanno infestato per anni i verbali delle procure calabresi, prima che ci si rendesse conto di essere davanti, se non ad un mitomane, almeno a un uomo dalla fantasia disinvolta. Uno che sosteneva che Bernardo Provenzano era stato ucciso dalla camorra, e che la ’ndrangheta trattava con Giulio Andreotti attraverso il suo autista. Tutte robe così. Compresi gli immancabili scoop sui contatti tra la malavita calabrese e Silvio Berlusconi, talmente strampalati da non venire nemmeno tradotti in inchieste.
È per questo, per la sua inaffidabilità pressoché totale, che Francesco Fonti è stato lasciato fuori dal programma di protezione riservato ai collaboratori di giustizia. L’abbandono in cui il «pentito» denunciava di trovarsi, la perdita della scorta e dello stipendio, erano tutte lamentele ben note a chi in Italia si occupa professionalmente del delicato tema dei collaboratori di giustizia. Uno scenario verosimile è che anche le rivelazioni di Fonti sulla «Cuski» (che in realtà potrebbe essere il «Cagliari», un innocuo piroscafo affondato durante l’ultima guerra) costituiscano semplicemente il tentativo di un pentito in disgrazia di tornare in auge.
La prima volta che Fonti proclama la sua volontà di collaborare con lo Stato sono le 16 del 26 gennaio 1994. In una località protetta l’aspirante pentito incontra il sostituto procuratore nazionale antimafia Vincenzo Macrì e quattro funzionari delle Criminalpol di Bologna, Milano e Reggio Calabria. L’inizio è commovente: «Ho conosciuto una ragazza con la quale vorrei vivere insieme e formarmi una famiglia \ Non intendo passare lunghi anni in carcere anche perché non sono più giovane». Da quel momento non smette più di parlare.
In una raffica di interrogatori che si protrae sino al 25 marzo, Fonti racconta agli investigatori storie di ’ndrangheta, di rituali, di organigrammi, di traffici di droga, di ammazzamenti. E condisce le sue rivelazioni con dettagli a volte comici («ho attraversato una grave crisi di coscienza per cui avevo pensato di chiudere col traffico della droga, quindi mi sono chiuso nella villa per una decina di giorni, intanto però i miei venditori mi portavano il provento delle vendite e io lo nascondevo nei doposci») a volte sconvolgenti. «Avevo già dei contatti con il colonnello Baddar dell’Olp il quale mi aveva offerto una sontuosa villa dalla quale avrei potuto avviare un traffico internazionale di stupefacenti». «Vincenzo Casillo, braccio destro di Cutolo, non era l’uomo creduto morto nell'attentato avvenuto a Roma ma era rifugiato in Brasile». «Bernardo Provenzano era stato ucciso dai napoletani ma non so quando né in quali circostanze». «Arrivò un uomo di circa quaranta anni, fui chiamato in disparte e mi fu detto che si trattava dell’autista dell’onorevole Andreotti. Tramite questa persona avevano la possibilità di far pervenire all’onorevole Andreotti delle richieste che venivano esaudite». «Il Papalia mi disse che grazie alla presentazione di Ciulla Salvatore suo fratello Papalia Antonio aveva avuto un incontro con Berlusconi Silvio col quale aveva discusso sia di appalti che di investimenti in grosse società gestite dal gruppo Berlusconi».
Aveva accusato uno dei più noti psicanalisti italiani di essere un consumatore in grande stile di cocaina.

E, visto che c’era, aveva lanciato fango contro un giudice di sorveglianza di Milano, mandandolo sotto processo: il giudice fu assolto, il pentito sbugiardato. Ma la passione di spararle grosse, evidentemente, non gli è passata.

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