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La grande fuga dei prof meridionali

Due docenti su tre che insegnano al Nord provengono dal Mezzogiorno. Appena si insediano in cattedra chiedono il trasferimento. Una mamma:"La maestra di mio figlio è calabrese. Quando ha avuto la certezza dell'incarico, non si è più vista in aula"

La grande fuga dei prof meridionali

Milano - La signora Anna rabbrividisce, nonostante il caldo agostano, al pensiero dell’inizio dell’anno scolastico. Il suo bambino, Luca, della scuola elementare di via Foppette a Milano, ha già cambiato quattro maestre di matematica, quattro di italiano e due di inglese nell’arco di due anni scolastici. L’unica insegnante, di ruolo, calabrese, si è messa in malattia appena ha avuto la certezza del posto sicuro. Non potendo chiedere il trasferimento se non alla fine dell’anno scolastico. In classe, comunque, non si è quasi mai vista. Lasciando gli sventurati alunni nelle mani delle diverse supplenti.

Anna, come le altre mamme, spera almeno quest'anno di avere delle insegnanti di ruolo. Che non chiedano il trasferimento dopo qualche mese per tornare al paese natìo. Ma il meccanismo perverso è legale. Ed è utilizzato soprattutto dagli insegnanti del Sud che spostano al Nord il domicilio solo per ottenere una cattedra e fare punteggio.
Del resto, la migrazione è ovvia visto che due insegnanti su tre sono meridionali. Una percentuale che lievita di anno in anno. Erano il 66,4% nel 2006, sono diventati il 67,5 nel 2007. Un fenomeno ben chiaro anche al ministro della Pubblica istruzione, Mariastella Gelmini, che vorrebbe introdurre degli incentivi per i professori che assicurino la propria presenza in classe per un intero ciclo scolastico di cinque anni. «È naturale che un professore desideri insegnare vicino a casa – ha dichiarato la Gelmini in una recente intervista –. Ma non è possibile realizzare un meccanismo di questo tipo, anche se di buon senso. Si può solo incentivare il professore di Milano che si trasferisce a Caltanissetta e quello di Caltanissetta che va a insegnare a Milano perché restino in quella sede per almeno cinque anni».

La proposta deve concretizzarsi e in attesa che questi incentivi arrivino, il turnover del personale docente non accenna a diminuire. In modo inammissibile per qualsiasi azienda che si rispetti. Basta affidarsi ai numeri per capire il fenomeno.
Nel settembre scorso hanno cambiato scuola oltre 73mila insegnanti a fronte di 130mila richieste, pari all’11,1% del totale. La percentuale media di mobilità degli anni scorsi oscillava invece intorno al 12,8%. Una cifra che esclude la situazione dei precari la cui mobilità sale al 19,4%. In totale, il carosello degli insegnanti si aggira attorno al 32,2% a livello nazionale. Fanno eccezione, in negativo, alcune province in cui la mobilità supera il 54% come a Isernia, o il 52% come a La Spezia. In totale circa 200mila docenti cambiano sede ogni anno.

Di fronte a questi numeri la reazione è obbligatoria. E il ddl presentato dal governo tenta di arginare il fenomeno. Permette la mobilità dei docenti solo dopo due anni di insegnamento in una stessa scuola e conferma per altri due anni i docenti precari in una stessa sede. Risultato sperato: carenze dimezzate come per incanto. Una speranza che nutre anche Giorgio Rembado, presidente dell’associazione dei presidi italiani. «La mobilità non garantisce la continuità didattica e non è funzionale alla programmazione. Quindi ben venga la legge che blocca i trasferimenti per due anni anche se sarebbe meglio che gli anni diventassero addirittura tre». Quanto ai presidi, che invece il blocco di tre anni ce l’hanno già per contratto, Rembado spiega: «Qualcuno vuole farli lievitare a cinque, un periodo che a me sembra troppo lungo. Del resto per i presidi c’è il problema opposto: si insediano in una scuola e ci restano fino alla pensione. E se li trasferisci se ne hanno a male». E quelli del Sud che vogliono andarsene appena arrivati al Nord? «Il trasferimento va dato solo in casi eccezionali. Sta al direttore regionale valutare caso per caso e decidere di conseguenza.

Se non compie questa indagine si esautora di un potere che gli concede la legge».

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