La grande rivolta dell’aprile ’69: agenti in ostaggio, scontri e feriti

«Crepitò, dal ciglio delle mura, qualche salva di mitra sparata in aria». Dino Buzzati raccontava così, sulle pagine del Corriere della Sera, la rivolta scoppiata nel carcere di San Vittore il 14 aprile 1969. Ma Buzzati, si sa, era più romanziere che giornalista e le sue cronache erano sempre pittoresche ed evocative. Tutto il contrario dei ricordi pragmatici del capitano dei carabinieri che quelle raffiche le ha dovute sparare per davvero. «Quando i detenuti che erano saliti sul tetto hanno colpito alcuni uomini con un fittissimo lancio di tegole e mattoni, ho preso un Fal (il fucile automatico in dotazione a quell’epoca) e ho sparato qualche colpo in aria, non c’era altro modo per riportare la calma».
La rivolta era scoppiata alle 16, subito dopo l’ora d'aria, nel terzo raggio, quello dei condannati per reati contro il patrimonio. Nel giro di un’ora tutto il carcere era sotto il controllo degli insorti. I detenuti avevano anche preso degli ostaggi tra gli uomini della Polizia Penitenziaria, ma, fortunatamente, non erano riusciti a forzare le porte dell’armeria.
Quel giorno Giuseppe Saragat, allora Presidente del Consiglio, si trovava in città per l’inaugurazione della Fiera Campionaria e il grosso delle forze dell’ordine milanesi era dislocato proprio alla fiera per garantire la sua sicurezza. Alla notizia della rivolta in atto, carabinieri e poliziotti vennero immediatamente spostati in piazza Filangieri.
Tra di loro c’era anche il capitano che ricorda le ore delle trattative con i rivoltosi. «Noi eravamo circa 500, tutti gli uomini disponibili in quel momento, i detenuti erano 1800». Già allora il sovraffollamento era un problema dato che la capienza di San Vittore è di circa 850 persone. Come se non bastasse, le condizioni di vita dei detenuti erano aggravate da un regolamento varato da Alfredo Rocco nel 1931 che prevedeva restrizioni molto pesanti. Due lettere alla settimana ai familiari, la divisa a strisce per i condannati in via definitiva, il divieto di leggere giornali di contenuto politico, il divieto di cantare o di possedere carte da gioco e molte altre limitazioni. Nel 1969, in piena contestazione, era inevitabile che il bubbone delle carceri scoppiasse violentemente oltre che a Milano, anche a Torino e Roma.
Per trattare con i detenuti di San Vittore, venne scelto il giudice Sinagra, ma anche il suo intervento venne salutato col lancio di tegole, sassi e «pacchetti maleodoranti», per usare la metafora del Corriere d’Informazione del 15 aprile 1969. Nel frattempo carabinieri e poliziotti si preparavano a intervenire all’interno del carcere non appena fosse arrivato l’ordine. «Verso sera i detenuti cominciavano a essere stanchi e le guardie carcerarie vennero liberate» racconta il capitano.
«A quei tempi le tenute da ordine pubblico non esistevano; l’unica protezione era l’elmetto d’acciaio e, al posto dei manganelli non ancora in dotazione ai carabinieri, usavamo il moschetto».
L’irruzione avvenne all’alba del 15 aprile quando ormai molti detenuti erano decisi ad arrendersi. Gli scontri, comunque, furono violentissimi e il bilancio finale fu di circa trenta feriti tra le forze dell’ordine e un centinaio tra i detenuti. San Vittore subì danni per centinaia di milioni e rimase chiuso diverse settimane mentre i rivoltosi furono trasferiti nelle carceri di tutta Italia, Sardegna compresa. La protesta, in ogni caso, non fu vana: il 27 luglio 1975, infatti, entrò in vigore il nuovo regolamento carcerario che migliorava decisamente le condizioni di vita dei detenuti e accoglieva molte delle loro richieste.

Secondo il capitano, che ora si gode la pensione col grado di generale, «la rivolta è stata un episodio grave, ma a Milano in quel periodo, ogni settimana c’era una manifestazione violenta: la guerriglia urbana era una routine».

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