Quando muore un amico non bisognerebbe scrivere neanche una riga su di lui. Si rischia di cedere alla commozione e di dire cose o scontate o falsate dal sentimento, dall’affetto. Ma in questa circostanza è un rischio che corro volentieri: perché Giancarlo Meloni - perdoni il lettore se mi cito - è stato per me, e per tanti di noi, molto di più che un amico. Ci ha insegnato il mestiere. Lo ha fatto senza interesse personale, ma solo perché pensava fosse suo dovere versare nelle nostre teste dure la sua esperienza e la sua scienza. Ciò che Nino Nutrizio, leggendario direttore della Notte, gli aveva insegnato, lui lo insegnava ai ragazzacci che gli venivano affidati affinché li trasformasse, con una pazienza pari alla fatica, in professionisti decenti. L’operazione gli è quasi sempre riuscita, perfino con me, credo.
Giancarlo, che ci ha lasciato a 81 anni, è stato mio capocronista. Non era il suo mestiere. Nel senso che poteva aspirare a molto di più. Laureato in matematica, di famiglia aristocratica, amava la letteratura, di cui era esperto. Immagino il suo giudizio sulla nostra povera prosa da reporter principianti. Quando leggeva i pezzi che gli consegnavamo, faceva delle smorfie di disgusto, ma non diceva una parola cattiva. Correggeva gli «sfondoni», riscriveva tutto nei casi disperati, che erano numerosi. Lui, che scriveva da dio, si era ridotto a rendere accettabili, almeno comprensibili, i nostri sgangherati elaborati.
Rimase orfano a 14 anni. Il padre fu ucciso dai partigiani nel palazzo avito di famiglia. Giancarlo assistette all’esecuzione guardando in cortile da una finestra del secondo piano. Me lo raccontò lui stesso davanti a una bottiglia di rosso ormai vuota, in una delle rare - forse l’unica - confidenze di cui mi onorò. Non era un chiacchierone. Al contrario, se ne stava dodici-quattordici ore in silenzio, il capo chino sulle carte, alla scrivania di ordinanza. Quando, anni dopo, divenni direttore dell’Europeo, gli chiesi se volesse collaborare con me. Commosso, accettò. Aveva gli occhi umidi. Da quell’istante in poi, Meloni abbandonò la divisa da ufficiale e indossò quella del soldato. Già, l’ufficiale adesso ero io. Mi seguì sempre: all’Indipendente, qui al Giornale, al Borghese, poi a Libero a ancora qui, al Giornale. Ubbidiente come un marmittone. Silenzioso. Garbato. In ogni sua frase, conversando di lavoro, emergeva nei miei confronti, che ero stato suo allievo e quindi debitore, gratitudine. Del che mi imbarazzavo. Tagliavo corto. Non sopportavo il rovesciamento delle nostre parti: io capo, lui esecutore.
Nei giornali uomini come Giancarlo non ci sono più. Altri tempi. Altra educazione. Lui lavorava per la testata, per l’azienda. Lavorava per evitare a noi brutte figure. Ha trascorso l’esistenza a raddrizzare le gambe ai cani. I cani eravamo e siamo noi. Era privo di ambizioni personali. Ci ha dato tutto e noi non gli abbiamo dato niente, neanche un saluto. È morto non so come né perché né voglio saperlo.
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