Il grido degli artigiani: "Ci serve solo lavoro"

REALISMO Il Senatùr: «Non abbiamo la bacchetta magica Un errore andare a votare, noi sistemeremo la baracca»

nostro inviato a Vergiate (Varese)

Non poteva che accadere quassù, tra le radici più profonde della Lega, a un «niente» da Gemonio, focolare e fortezza del Senatùr. Non poteva che esserci lui, il vecchio leone del «Roma ladrona» ruggito con il cuore, prima che con la gola. Lui che ieri sera, davanti alla sua gente, ribadisce che «non si tornerà al voto, perché vorrebbe dire ricominciare tutto da capo» e che, soprattutto, rassicura che «noi sistemeremo la baracca, non la lasceremo cadere». Ad affiancarlo non poteva essere che il suo alleato più sincero del Pdl, Giulio Tremonti, quasi ad amplificare quella voce che sarà anche resa roca dalla malattia e dagli irrinunciabili toscani, ma che non è mai stanca di lanciare messaggi precisi, mirati, di peso.
Si sono ritrovati quassù a Vergiate, l’Umberto - che premette «la bacchetta magica non ce l’ha nessuno» - e l’amico Giulio che invita il pubblico ad «avere fiducia nel governo» anche se «sarebbe un pirla chi dicesse che alla fine della crisi tutto tornerà come prima». Di fronte a loro, un auditorium stracolmo di piccoli e piccolissimi imprenditori, perlopiù subfornitori, perlopiù quindi anonimi, ma che in un tempo felice e nemmeno tanto lontano erano stati indisturbati produttori di ricchezza e di posti di lavoro.
Volti di gente operosa di una provincia operosa che da sola fa il Pil del Friuli Venezia Giulia e dove ci sono comuni, come la minuscola Jerago, 5.069 abitanti appena, dove spuntano 57 aziende per chilometro quadrato. Gente che oggi legge attonita - quasi incredula di essere entrata a far parte di statistiche che credeva dover riguardare sempre altri e altrove - le cifre di una crisi che qui vedono a rischio chiusura 2mila cancelli per complessivi 5mila dipendenti. Proprio qui, dove soltanto nel 2008, mica una decennio fa, si viaggiava ancora alla media di 200 nuove imprese aperte ogni mese. Poi, di colpo, la follia finanziaria importata dagli Usa, che insieme al suo castello di cartacce ha fatto venire giù tutto e tutti. Anche loro, gente operosa.
Così, ieri sera, si sono radunati qui per lanciare, sempre con dignità, il loro grido d’aiuto. Rivolto sì ai «cattivi», ovvero alle banche, ma soprattutto al governo. Al quale gli artigiani e i piccolissimi imprenditori varesini, sopra ogni cosa chiedono il ritorno del lavoro «perché con quello ci autofinanziamo - dice uno di loro, Francesco Piana - mentre i soldi alle banche sono poi duri da restituire. È il lavoro che ci serve, soltanto quello».
Sono umiliati da leggi scellerate e suicide, specie per un Paese come il nostro, bizzarro e forse anche inspiegabile concentrato di geni creativi e di immarcescibili spiriti d’impresa. Norme scritte da un pazzo, come quella che consente per esempio ad altri imprenditori, dai nomi più grandi e altisonanti, di spacciare per Made in Italy un capo d’abbigliamento pensato qui, ma fabbricato in Cina. Per cucirgli su quell’etichetta ingannatrice - che nasconde chissà quali tinture nocive da noi proibite, chissà quali orari per operai bambini, e chissà quali veleni da spargere nel mondo alla faccia dei Protocolli di Kyoto sottoscritti da quei gonzi degli occidentali - basta aprire un ufficetto qualunque, da qualsiasi parte dello Stivale. Una bella targa, una parola inglese come Research o Design, e il gioco è fatto.
È contro leggi così che si batte il leghista Marco Reguzzoni, insieme con il collega del Pdl Santo Versace, per arrivare a una normativa che regoli severamente, e quindi protegga, la filiera dei prodotti tessili.
È gente, quella vista a Vergiate, che lotta con i pagamenti a un anno e più da parte dei loro clienti grandi e famosi, quelli che magari pontificano a Ballarò stracciandosi ipocritamente le vesti per loro, i piccoli, sostenendo con fare compreso «che sono la vera forza del Sistema Italia». Ed è senz’altro gente non doma, quella che ieri, dopo aver tirato giù come ogni sera la cler, sperando di poterla sollevare di nuovo all’indomani, è accorsa qui in attesa di una parola. Anche una sola, ma quella giusta.
Sono uomini e donne stanchi soprattutto - te lo ripetono fino a esaurire la voce - di dover combattere con un mondo del credito divenuto avaro, tignoso, e che sentono aver perso, nei loro confronti, quel rispetto e quella conoscenza personale che c’erano invece un tempo.

Quando - è su questo che insistono - i direttori di filiale erano sempre gli stessi, ti conoscevano di persona e gli bastava guardarti in faccia, anziché nei libri contabili, per concederti un fido con la sola stretta della mano. Era quel tempo perbene, di gente perbene, prima che arrivasse la mania delle fusioni, delle aggregazioni e di quella bulimia dimensionale che è stata la madre di ogni inefficienza.

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