Il «Grinzane Cavour» - che per anni ha assistito a un chiassoso magna magna e poi a un silenzioso fuggi fuggi da parte di scrittori, politici, editori, giornalisti - è franato sotto i colpi di una maxi-inchiesta giudiziaria, mentre la Fondazione Epokè e la Fiera del libro di Torino se ne contendono le spoglie: Enrico Stasi, nominato dal tribunale di Torino liquidatore dellimpero culturale di Giuliano Soria, sta vagliando in questi giorni le due offerte. Poi si svolgerà lasta, funebre.
Lo «Strega» - che si trascina sempre più stancamente fra attese, proteste, rabbie, rivalità, autocandidature e svendite a pacchetti - è in fase di stallo, almeno a leggere il Corriere della sera di qualche giorno fa, con gli «Amici della domenica» che vorrebbero chi rifondarlo, chi ripensarlo, chi ripulirlo, chi fermarlo per un anno... Mentre proprio ieri Dagospia pubblicava unintervista (postuma e inedita: è del luglio 2007) di Nunzia Penelope ad Anna Maria Rimoaldi, mai abbastanza compianta domina del premio, la quale mette in fila uno dopo laltro grandi editori («Della qualità se ne fregano, pubblicano solo per fare quattrini»), editor («A fine anno ognuno deve dimostrare quanto ha fatto guadagnare alla ditta: se anche avesse trovato dieci libri bellissimi, ma che non vendono abbastanza, verrebbe messo da parte»), scuole di scrittura («Non le capisco. Linvenzione, la narrativa: o ce lhai o non ce lhai»), autori («Bevilacqua? Orrendo». «Parrella? Bei racconti, ma il romanzo è unaltra cosa». «Mazzucco? Lavora di fretta e si vede». «Baricco? Mai amato». «Scurati? Una lagna pazzesca»).
Da parte sua il «Viareggio», che fino al 2004, sotto la guida prudente di Gabriella Sobrino e la «protezione» di Cesare Garboli, era riuscito a rimanere lontano dai guai, ultimamente ne ha viste di tutti i colori, sino alla clamorosa spaccatura dellestate di due anni fa, con la raffica di dimissioni di giurati contro la presidentessa Rosanna Bettarini, una «fronda» dalla distorta eco mediatica di cui la manifestazione continua a pagare i postumi. Mentre al «Campiello» non si sono ancora ripresi dalle divisioni interne che hanno lacerato lultima edizione, quella passata alla storia come la «guerra delle quote rosa», quando la giuria decise di selezionare una cinquina di sole donne, senza però riuscirci: sparì Melania Rizzoli, spuntò Paolo Di Stefano, arrivarono le benefiche polemiche.
E questo per stare ai più noti e esclusivi dei circa 1600-1700 premi letterari censiti in Italia (esclusi quelli che proliferano in Internet). Per quanto riguarda i minori, invece, non cè che limbarazzo della scelta, a partire dal premio «Città di Ostia» assegnato una decina di giorni fa - non senza prevedibili contestazioni - a Licio Gelli, noto benemerito delle Lettere e della Repubblica italiane...
Ormai da tempo ogni volta che da noi si pronuncia la parola «premio letterario» iniziano ad alzarsi venti di tempesta: forse per mettere un po di pepe su un piatto - la cultura - solitamente insapore e indigesto; o forse perché non cè nulla di più pettegolo e litigioso di un salotto intellettuale. Mettete insieme due scrittori, un poeta e tre giornalisti e avrete unidea di che cosa siano la meschinità, la gelosia e linvidia. Totem di un tempo e di un mondo che non esistono più, i premi letterari mostrano ormai gli stessi limiti e scontano gli stessi «brevi» orizzonti mentali delle pagine letterarie dei quotidiani: un pernicioso e snobistico elitarismo, una eccessiva autoreferenzialità mal bilanciata da pessimi tentativi di «massificazione» culturale (bestsellerismo imperante, overdose festivaliere, divinizzazione dellautore «contro»), uninfatuazione autodistruttiva per i temi e i personaggi della cultura light, ossia quella che non annoia, quella dis-impegnata: i Moccia&Muccino, larte falsamente provocatoria, le antologie di poesie per gli innamorati... È la spettacolarizzazione della letteratura: il premio migliore è quello che ha la sua serata in diretta tv.
Certo, i premi ci mettono del loro (ce ne sono troppi, raramente vince il migliore, si esagera con i favori e i voti di scambio), e ci mettono del loro anche i giornali. Non molto tempo fa Martino Sinibaldi si chiedeva sconsolato se ci fosse qualcosa di serio nelle polemiche intorno ai premi letterari: «Forse no, forse sono solo le fibrillazioni di un sistema mediatico che ha bisogno di rendere tutto spettacolare e possibilmente scandaloso per riempire i giornali. E come volete che il mondo dei libri e della letteratura arrivi nelle prime pagine se non perché qualcuno insinua, qualcuno trama, qualcuno tradisce?». Ma il dubbio è che il progressivo e inarrestabile naufragio, in autorevolezza e credibilità, dei premi letterari non sia che laltra faccia (insieme allo svaccamento dei salotti intellettual-giornalistico-editoriali) della costante degradazione della cultura italiana. Una decadenza che rispecchia la condizione della televisione, sia di Stato che privata, dove la stessa parola «cultura» è bandita per statuto; delleditoria, che privilegia linstant-book, il best-seller, i libri dei comici e delle starlette, il «caso editoriale» americano, il thriller usa-e-getta; della stessa scuola e delluniversità, che livellano sempre più conoscenze e obiettivi verso il basso, semplificando, chiedendo sempre di meno ai propri insegnanti e ai propri studenti, riducendo i programmi...
La tendenza dominante è mettere ai margini la «Cultura», ghettizzarla, lasciarla in mano a pochissimi tecnici, poiché si pensa che non serva più, o molto poco rispetto agli investimenti necessari per crearla e diffonderla; insomma la si snobba, la si dimentica, la si de-potenzia. Il risultato? Una società più volgare e ignorante e ampie fasce della popolazione affette da analfabetismo di ritorno. Che poi, come fanno a leggere i libri che vincono i premi letterari?
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