Milano - Quando Giovannino Guareschi se ne andò nel luglio del 1968 - aveva sessant’anni, e ne compirebbe cento adesso - l’Unità celebrò la morte d’uno scrittore «mai nato». Infuriava in quel tempo la contestazione giovanile, un mondo cui Guareschi si sentiva estraneo e che lo sentiva estraneo, anzi nemico. Il creatore di don Camillo e di Peppone doveva essere umiliato, negandogli una caratura letteraria invece concessa con facilità ad autorelli senza talento ma, come usa dire, «impegnati». Non solo la sinistra si scagliò contro Giovannino. L’azione giovanile, organo ufficiale della gioventù di Azione cattolica, lo definì con cristiana comprensione «lo scarafaggio».
Non più teneri nei suoi riguardi risultarono, in numerosi saggi, i sacerdoti dei riti culturali. Giulio Ferroni riconobbe a Guareschi la capacità di raccontare la provincia «di cui forniscono un’immagine rivelatrice, anche se di scarso valore letterario, i facili romanzi su Don Camillo». L’intellighenzia politicamente corretta e la politica a torto autoproclamatasi intelligente attestarono il loro snobismo sprezzante nei confronti di chi era diventato popolare fuori dai salotti e contro le conventicole, disertandone i funerali.
Per essere uno scrittore mai nato e un raccontatore mediocre di storielle paesane, non si può dire che Guareschi abbia stentato a farsi conoscere e amare. Si sono contate oltre trecento edizioni in tutte le lingue (compresa la lingua delle isole Samoa, il greco antico, il latino) delle sue opere. Venti milioni di copie vendute. I film con Fernandel e Gino Cervi hanno contribuito a ingigantire il fenomeno Guareschi: ma non ci sarebbero stati i film se i caratteri guareschiani non avessero avuto, prima di trasmigrare dalla carta alla pellicola, una potentissima carica di umanità e di verità.
Sulla «verità» e concretezza della produzione guareschiana è tuttavia necessario intendersi. Essa rappresenta magnificamente la vita. Ma è anche, o soprattutto, un insieme di favole. Lo spiega distesamente Guido Conti nel suo recente Giovannino Guareschi, biografia di uno scrittore (Rizzoli, pagg. 594, euro 21,50). Cito: «All’interno della feroce guerriglia che vive la società italiana, l’autore si accorge che i personaggi dei suoi racconti non solo sono un modello in cui rispecchiarsi ma non rinunciano a una ideale conciliazione umana (...). La figura del Crocifisso rappresenta proprio questo aspetto di moralità e coscienza, che resta uno dei fini per cui Guareschi scrive, ma è anche un importante strumento narrativo. Se don Camillo e Peppone sono i due contendenti continuamente in lotta, il Crocifisso è anche un deus ex-machina nel vero senso della parola, che concilia i due diversi opposti».
Tutto questo è molto ragionevole, ed è insieme molto poco se ci si propone di svelare il mistero di Guareschi: che del resto, come tutti i maggiori misteri della creazione artistica, resta imperscrutabile. Guareschi non è colto. Viene dalla gavetta giornalistica, vissuta in umiltà dopo una infanzia e una giovinezza difficili. Come prosatore, Guareschi è essenziale - nel lessico e nella sintassi - fino alla povertà. Come rappresentatore d’ambienti e d’atmosfere non ambisce a lunghissimi tragitti, gli basta - e avanza - quel mondo piccolo che gli altezzosi Soloni della critica hanno bollato come meschino (gli appunti mossi a Guareschi possono valere in larga misura per un altro grande, Simenon).
Che cosa c’è in quelle pagine che riesce a interessare, ad affascinare, a commuovere sia lo svedese sia l’indiano, sia il turco sia il cileno? Come riesce questo affabulatore disadorno a toccare cuori umani appartenenti a universi da lui lontanissimi? Ecco l’interrogativo che possiamo, anzi dobbiamo porci, senza riuscire a dare una risposta definitiva: ma sapendo che la risposta non può consistere in un’altezzosa rimozione del mistero.
Genio letterario a sua insaputa, Guareschi fu anche un infaticabile artigiano della penna e del disegno. Diede un apporto decisivo ai fogli satirici che durante il regime fascista hanno portato scintille di spregiudicatezza e d’indipendenza nella stampa irregimentata, e che dopo la nascita della Repubblica hanno conferito un tocco di aspra inventiva alla lotta politica. Non sarà mai abbastanza sottolineato, in proposito, ciò che Guareschi fece per la vittoria dei moderati nelle elezioni del 18 aprile 1948. Con molta onestà - pur nella sua impostazione di totale fede guareschiana - il volume di Guido Conti riporta alcune indegne facezie antisemite nel Bertoldo del 1938, l’anno delle ignobili leggi razziali.
Conti segue - insieme al percorso giornalistico e letterario - anche il percorso umano di Giovannino. Ne rievoca la prigionia in un lager nazista. Ne ricorda l’altra prigionia - in un carcere italiano - per aver diffamato Alcide De Gasperi attribuendogli la paternità di scritti in cui si chiedeva che gli angloamericani bombardassero Roma. Conti propende per l’autenticità di quella corrispondenza, dichiarata falsa da una sentenza di Tribunale. Io seguii, come cronista del Corriere della Sera, il triste processo che oppose due galantuomini (De Gasperi si spense poco dopo). Ho la convinzione che i presunti documenti fossero opera di un falsario - del resto se ne conosce il nome - e che Guareschi sia stato ingannato e si sia poi, con ostinazione contadina portata fino allo stoicismo, autoingannato.
Per orgoglio non volle presentare appello contro la condanna, e un perverso meccanismo giudiziario, che mantiene in libertà i peggiori ceffi, lo mandò in galera. Fu un martirio fortemente voluto e strenuamente patito, davanti al quale dobbiamo toglierci il cappello. Guareschi soffrì la vita, più che goderla.
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