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La guerra al terrorismo

«Sapete perché possiamo vincere? Perché non stiamo chiusi nelle basi, perché ci consumiamo le suole dentro questi villaggi, perché conosciamo ogni casa e ogni angolo di questo buco del mondo, perché stiamo in mezzo agli afghani e diamo la caccia al nemico in mezzo a loro».
Il capitano Sean Dynan, comandante della compagnia Alfa dei Marines, lo ripete ogni giorno mentre perlustra i villaggi nel sud della provincia afghana di Helmand. Forse lo ha imparato sul campo, forse ha letto il manuale di controguerriglia preparato dal generale David Petreaus. In ogni caso, le sue parole rivelano un cambio d’atteggiamento e anticipano alcuni elementi della prossima, non facile, «rimonta» contro i talebani.
L’Alleanza Atlantica e l’America riusciranno a portare a termine la missione? Siamo ancora in grado di ribaltare le sorti del conflitto e riconquistare la fiducia degli afghani bloccando il ritorno dei talebani? Per rispondere a questi interrogativi due giornalisti di guerra, Gian Micalessin e Fausto Biloslavo, tornano in Afghanistan visitando gli avamposti dei Marines nel sud del Paese e documentando, per primi, le operazioni e le missioni delle forze italiane rimaste a lungo segrete. Le battaglie combattute dai nostri soldati per difendere lo sperduto avamposto di Bala Mourghab al confine con il Turkmenistan, le operazioni delle nostre forze speciali per fermare l’infiltrazione talebana nella provincia di Farah, sono anch’esse parte della controffensiva che dovrà consentire alla Nato di allargare il controllo su aree molto più ampie del Paese.
Le testimonianze e le battaglie dei militari, i racconti e le speranze degli afghani sono ora raccolti in un libro di Gian Micalessin (Afghanistan, ultima trincea - Boroli Editore - 14 euro), arricchito dai contributi di Fausto Biloslavo, che ti porta nel cuore del conflitto.
I reportage sono lo spunto per un’analisi sulle priorità e sulle strategie indispensabili per portare a termine la missione cominciata dopo l’11 settembre. A oltre sette anni dalla cacciata dei talebani il libro esamina i fattori che alimentano il ritorno dell’insurrezione fondamentalista. L’incapacità degli alleati di mantenere le promesse di libertà, sviluppo e sicurezza formulate nel 2001 garantisce nuovi consensi ai talebani, mentre la dilagante corruzione governativa divora gli aiuti internazionali, ostacolando la ricostruzione. Anche la creazione di un esercito afghano in grado di controllare il territorio è passata in secondo piano nel 2003, quando l’attenzione si è spostata sul teatro iracheno.
A rendere lo scenario ancora più instabile contribuisce il vicino Pakistan, con le sue ambizioni di potenza regionale. Le promesse di collaborazione con Washington nella lotta ai santuari del terrorismo sul proprio territorio (la regione tribale a ridosso del confine afghano è diventata non solo rifugio ma anche base di lancio per gli attacchi talebani in Afghanistan) si è man mano trasformata in ostruzionismo. Le tendenze fondamentaliste di molti esponenti del governo e il sostegno ai talebani, nel segno di una strategia rivolta a controllare l’Afghanistan e i suoi commerci, hanno trasformato il Paese in un nuovo campo di battaglia. Vittima dei propri stessi giochi, il Pakistan si ritrova oggi minacciato dalle milizie talebane e rischia l’isolamento e la bancarotta se non scenderà a patti con Washington.
L’ultimo nodo, ma non per importanza, è quello della doppia missione. Una nuova strategia richiede innanzitutto un migliore coordinamento tra i 17mila soldati americani della missione Enduring Freedom e il contingente Nato di quasi 50mila uomini (tra cui 18mila americani) della missione Isaf. La missione Enduring Freedom permette agli americani di svincolarsi dalle restrittive regole d’ingaggio della Nato e dalla sua complessa struttura di comando. Per Washington la soluzione migliore sarebbe l’integrazione delle truppe di Enduring Freedom nella missione Nato e il passaggio di quest’ultima a un comando americano affidato al generale Petraeus. Gli alleati europei non ne vogliono sentir parlare, ma gli Stati Uniti ricordano che gli elementi decisivi della «svolta» irachena sono stati proprio il comando esclusivo affidato a Petreaus e la totale autonomia del generale dalla politica e dagli altri vertici militari. Come se ne esce? Mentre Barack Obama rilancia i rapporti interatlantici, il segretario alla Difesa Robert Gates ricorda che chiunque rivendichi un ruolo di comando e di definizione delle strategie non può rifiutare la partecipazione a missioni di combattimento e a operazioni segrete scomode e imbarazzanti. In Irak un elemento chiave della controffensiva è stata l’eliminazione sistematica di 3500 esponenti di Al Qaida grazie al micidiale impiego delle forze speciali. Chi in Europa avrebbe il coraggio di presentare all’opinione pubblica un simile «conto del macellaio»? Indubbiamente pochi, e su questo si baserà il vantaggio degli Usa quando proporranno agli alleati la ricetta della «rimonta».
Insomma, vincere la sfida afghana, che non è solo militare, è un’impresa tutt’altro che facile, ma non impossibile. Anche George W. Bush aveva capito, forse in ritardo, la necessità di cambiar rotta. Oggi il primo a esserne convinto è il neo presidente americano Barack Obama. La strategia del generale Petraeus (oggi alla guida del Centcom, il comando centrale Usa per le operazioni in Medio Oriente e Afghanistan) nel mattatoio iracheno si è rivelata decisiva. E la Casa Bianca ora ha deciso di rafforzare il contingente americano (con altri 17mila soldati), chiedendo agli alleati, tra cui l’Italia, di fare altrettanto. Allo stesso tempo adotta una «linea dura» con il presidente afghano Karzai, ritenuto debole e corrotto, e intensifica la collaborazione con i leader tribali in funzione anti talebana.
Basterà per riconquistare la fiducia del popolo afghano? I primi passi sembrano andare nella giusta direzione, anche se le incognite restano numerose. Il capo del Pentagono, Robert Gates, ha definito l’Afghanistan «la più grande sfida militare per gli Stati Uniti».

Ma è una sfida che nessuno in Occidente può permettersi di perdere.

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