I raid chirurgici israeliani degli ultimi giorni sono un messaggio chiaro da parte di Benjamin Netanyahu: Israele non si fermerà fino a quando l'intera area non sarà ripulità dai suoi nemici. Questo spiega il cambio di strategia che ha portato all'intensificarsi dei raid in Libano come in Siria. Ma se la guerra con Hezbollah non rappresenta di certo una novità nel panorama mediorientale, l'attacco che ha colpito l'ambasciata dell'Iran a Damasco non resterà senza conseguenze.
Il parallelo con il caso Soleimani
Colpire una sede diplomatica, nei fatti, equivale ad attaccare direttamente il territorio sovrano di un altro Stato. Questo le Idf lo sanno bene, così come Netanyahu. E sebbene quella con Hezbollah sia una guerra per procura, ora il rischio di un nuovo fronte è quantomai reale. Difficile però comprendere e ipotizzare cosa il regime degli ayatollah preferisca fare per a) mettere in campo una reazione che sia proporzionata all'azione (se non di più), b) ottenere il massimo effetto scenico possibile.
L'esempio della morte del generale Soleimani sebbene potrebbe essere utile a formulare ipotesi, non appare perfettamente calzante. La fama del generale dei Quds non sembra affatto paragonabile a quella di Mohammad Reza Zahedi, rimasto ucciso nell'attacco a Damasco. Va inoltre ricordato che in quell'occasione la rappresaglia iraniana contro gli Usa fu alquanto morigerata, se si pensa all'attacco alle basi americane in Iraq avvenuto poco dopo.
La reazione "necessaria" di Teheran
A ogni modo, Teheran non può non reagire. Ma esiste una disparità sul campo di battaglia: l'Iran possiede denaro, armi e proxy a sufficienza per disastrare il teatro mediorientale, ma cosa accadrebbe in uno scontro aperto sul campo di battaglia? Del resto Teheran-solo tecnicamente-non è in guerra con nessuno dagli Ottanta, e non è un caso. Ma stavolta non può astenersi dal rispondere all'uccisione a Damasco del generale dei Guardiani della Rivoluzione se non vuole perdere la sua 'presa su Iraq, Siria e Libano. Come afferma Ali Vaez, direttore dell' Iran Project presso l'International Crisis Group, Israele vede l'attacco al compound diplomatico dell'Iran a Damasco come una situazione "win-win". L'analista ritiene che la Repubblica islamica non abbia "né la capacità né la volontà di uccidere alti ufficiali militari israeliani" data anche la sua "riluttanza ad entrare in uno scontro militare diretto" con lo Stato ebraico. Tuttavia, non può permettersi di non rispondere a questo attacco, che ha oltrepassato il limite, prendendo di mira una struttura diplomatica. Non reagire, dunque, significherà dimostrare di essere tutto fumo e niente arrosto, cessando di sostenere la sua presenza militarenell'area.
La vendetta delocalizzata
Se l'Iran non interviene in uno scontro diretto da decenni, bisogna anche ricordare chi c'è dietro l'Iran di oggi. Teheran è a un passo dall'atomica, per quello che sappiamo, avendo smesso di dialogare sul nucleare da anni. In questo enorme vuoto si è inserita Mosca, che ha avviato con il Paese un fruttuoso scambio di morte: i droni Shaded di fabbricazione iraniana stanno sostenendo Mosca nella guerra contro Kiev. In cambio, la Russia di Vladimir Putin sta fornendo agli ayatollah l'expertise necessaria in fatto di missili. Un affare che si fonda sull'odio ideologico verso due nemici comuni: l'Europa e gli Stati Uniti.
Se, dunque, attaccare Israele in casa sarebbe una mossa troppo rischiosa, nulla vieta di poter attaccare lo Stato ebraico altrove, in Europa come nel resto del Mondo: i proxy hanno le capacità per farlo. Un'operazione non solo simbolica, che avrebbe almeno due effetti: agire sì come una vendetta nei confronti di Tel Aviv ma in un contesto delocalizzato, e allo stesso contribuire ai disegni di guerra di Mosca, se avvenisse in Occidente. Con un'aggravante: un "colpo" di qualsivoglia tipo in Europa, costringerebbe l'Occidente-al momento tiepido con Netanyahu-a fare una scelta di campo una volta per tutte. Difficile pensare all'Europa come pronta a imbarcarsi in una guerra diretta con l'Iran, opzione che scatenerebbe le reprimenda israeliane in fatto di lealtà.
Reazioni minori
Ipotesi di reazioni "minori" sono quelle che passano dagli Houthi e dal Libano. Minori perchè queste realtà, seppur armate a dovere, non sarebbero in grado di reggere una vendetta di proporzioni bibliche. Gli Houthi, nonostante la missione di disturbo in cui sono imbarcati, dovrebbero disporre di missili a lunga gittata per tentare il colpo grosso in Israele. Ma gli Houthi sono ciò che sono e un simile piano dovrebbe reggere a un lungo, quanto improbabile, volo sul Mar Rosso. Quanto al Libano, anche il Paese dei cedri è allo stremo: Hezbollah è una milizia forgiata da anni di guerra, armata a dovere. Ma nel conflitto che ha ingaggiato con Israele dal proprio sud sta perdendo gravemente: lo Stato ebraico ha dalla sua potentissime tecnologie che stanno mietendo vittime su vittime tra i proxy iraniani. Spingere alla guerra aperta via Hezbollah significherebbe il futuro delle proprie milizie in loco.
Nessuna reazione
Esiste, tuttavia, un'ipotesi affatto peregrina che è quella del "nessuna risposta". L'intensificarsi delle operazioni a Gaza, la crisi umanitaria scatenatasi dopo l'attacco, le proteste contro Netanyahu stanno esponendo Tel Aviv al ludibrio internazionale. L'attacco a un compund diplomatico aggrava la condotta di Israele che, in questo momento, è messa all'angolo anche dai vecchi alleati come gli Stati Uniti di Joe Biden.
Grazie a questo scenario Teheran sta guadagnando doppiamente: assiste all'indebolimento dell'abbraccio a Israele e, allo stesso tempo, cavalca la causa palestinese, mietendo grande e nuova popolarità nel mondo islamico, mentre i paesi arabi si atteggiano a mediatori, "tradendo" la causa dei "fratelli" palestinesi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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