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Il guerriero ritorna a Pontida «La malattia non mi ha vinto»

È ancora convalescente, ma questa volta parla per dodici minuti sotto 42 gradi all’ombra. E scatena l’entusiasmo tra i suoi 20mila fedeli

Gabriele Villa

nostro inviato a Pontida (Bergamo)

I bei tempi vengono. Ore 11 e 58 minuti, quarantadue gradi all'ombra dei fili d'erba del sacro pratone. La gioia e la tristezza, l'affanno e la fatica del ritorno del grande condottiero stanno tutti dietro e dentro quel «i bei tempi vengono» che lui, Umberto Bossi, l'amico ritrovato, bisbiglia, quasi fosse un segreto, agli amici di sempre, quelli che non l'hanno mai mollato, quelli che l'hanno accompagnato «da un ospedale all'altro». La ripete più e più volte quella frase prima di salire sul palco. E la ripeterà prima di congedarsi, con la voce ancora sfregiata dal dolore. Quasi per esorcizzare il malanno che l'ha messo al tappeto e l'ha tenuto fuori gioco per un anno. E che ancora lo costringe, davanti al suo popolo, a mostrare i limiti e la fragilità di un uomo, perché in fondo anche i condottieri sono uomini, che sta lottando con tutte le sue forze per risalire la china della dignità. Per rompere con le unghie, unghie che, a tratti, scivolano sul ghiaccio dell'emozione, quella sorta di sfera malefica in cui, rallentato nei movimenti, sembra costretto a dibattersi.
Ma tant'è. Al popolo di Pontida, quindici, forse ventimila padani della prima e dell'ultim'ora, poco importa ritrovarsi davanti un capo in convalescenza. Perché la cosa più importante è che quel capo, anzi il capo, anzi «il discendente diretto di Alberto da Giussano» è lì, finalmente. È tornato
«Pontida è la mia festa, è la nostra storia» urla il condottiero auto-microfonato per una miglior resa d’amplificazione. E il green people reagisce come una molla sollecitata adeguatamente: esplodono i petardi, piroettano nel cielo i fumogeni rigorosamente verdi, esplode la gioia di chi, a digiuno di certezze, proprio quel momento e quelle parole aspettava da almeno un anno. Camicia casual a righine verdi ma poco verdi, pantaloni scuri e faccia obbiettivamente meno emaciata dall’ultima sua comparsata a Lugano in febbraio, il Senatùr, squisita sensibilità mediatica, si presenta sul palco con largo anticipo rispetto alla scaletta compilata dal luogotenente Calderoli. Parlerà per dodici minuti. «È stato un anno difficile. Ma è un anno che ho superato grazie alla Lega e ai militanti della Lega. Io sapevo di non essere solo».
Ospedale, dopo ospedale. La sintesi del calvario che un uomo solo al comando si è trovato costretto ad affrontare da quell’11 marzo del 2004, quando l’ictus gli piombò addosso come una fiondata. Quando la gente di Padania temette il peggio del peggio davanti a quel condottiero disarcionato. Ospedale dopo ospedale. La rianimazione, le frasi smozzicate, la paresi. Poi le prime parole con un senso compiuto pronunciate giusto un anno fa alla vigilia del grande raduno annuale: «Sto abbastanza bene, nel senso che non sono morto. Però era meglio non avere tutta sta roba e tutti i dolori. Per me è meglio rinviare Pontida. Posso esserci anch’io e io verrò, ve lo prometto. Ho bisogno di recuperare un po’di voce e un po’di energia».
Un anno dopo sono altre battute. Che rompono un incubo, e l’emozione in chi le pronuncia e in chi ascolta è fortissima. La prima pausa, per prender fiato e forza è riempita subito con gli applausi, con il calore e l’incitamento di una platea pronta a donar il sangue pur di ridare vigore al suo condottiero. «Oggi sono a Pontida per ricominciare. La storia è, la nostra storia è già passata da Pontida e non poteva non ripassare. Siamo sempre gli stessi. Non molliamo». Pausa, fiato, applausi, petardi. Il condottiero, amorevolmente accudito a distanza ravvicinata dalla moglie Manuela, sorvegliato con gli occhi dai figli e dai suoi colonnelli, riattacca. «Sono qui con la spada sguainata, la mia fede non è stata scalfita dalla malattia. Ho avuto la maglietta con la scritta «Bentornato Umberto» e sono felice, questa è la mia giornata. Ai leghisti del Sud dico di non farsi irretire dalle comari del centralismo. A tutti i leghisti dico che sapevo che sarebbe fallita l’Europa». L’uomo che discende da Alberto da Giussano, come ci ricordano gli altoparlanti, sembra ora pedalare più agevolmente nella salita del ritorno sul ring e, puntuale, come «ai bei tempi» piazza l’affondo. Si riaffaccerà per riscuotere la cittadinanza onoraria di Pontida dal suo primo sindaco leghista e, dopo i vari interventi istituzionali, per ricevere dai suoi l’abbraccio dell’arrivederci.

E quel «Bentornato» che sale al cielo, ritmato con lo slogan di sempre: «Padania libera», è la miglior cornice per quella gigantografia dell’Umbert che sta accanto al palco. Mano sul cuore e via, a mille decibel, con «Va’ pensiero». Che tutte le paure svaniscano.

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