Sono stati presi ad esempio dalla stampa di tutto il mondo, i lampedusani. Si arrivò perfino a proporli per il Nobel per la Pace, e lo avrebbero meritato di diritto. Per la premura, la partecipazione, la disponibilità e la benevolenza con le quali accolsero, spesso soccorrendole, le ondate di clandestini che si riversavano sull’isola. Un Nobel supplementare l’avrebbero guadagnato, inoltre, per la pazienza, l’aspetto più personale e più impegnativo della mai abbastanza predicata tolleranza.
Pazienza nel sopportare le arroganze, il teppismo e il vandalismo, la mala creanza e l’ostentazione volgare e non di rado sconcia della loro diversità delle migliaia di clandestini e della loro teppa. Non grati per essere stati accolti, curati e sfamati. O anche, nel piagnucoloso immaginario terzomondista, affrancati da una miserrima vita di stenti e di rinunce. Ma subito, appena messo piede a terra, pronti alle rivendicazioni: più comodità, cibo più ricco e variato, più libertà di movimento, più sicurezza economica. Più tutto. Inevitabile che i lampedusani perdessero la pazienza. Atteso, di conseguenza, l’energico appello del sindaco dell’isola, Dino De Rubeis: «Non vi permettete di accusare di razzismo i lampedusani, hanno dato fin troppo. Siamo in guerra, la gente a questo punto ha deciso di farsi giustizia da sola». E mostrando una mazza da baseball: «Anch’io sono costretto a difendermi: sono pronto a usarla, scrivetelo pure».
Le anime belle, prima fra tutte Anna Finocchiaro, la Vispa Teresa della sinistra, accusano ovviamente il governo («Maroni subito in Senato su Lampedusa!», tutta giuliva gridava a distesa). Perché «non ha fatto». Perché trattiene i clandestini - detti migranti, ma pur sempre clandestini - sull’isola. In strutture non acconce, per mancanza di agi, a chi era pur destinato alla nota miserrima vita di stenti e di rinunce, che gli agi di certo non avrebbe previsto. La verità è che non ha fatto, il governo, ciò che l’opposizione gli intimò di non fare: non rimpatriarli in massa, non dividerli in piccoli gruppi in diverse località del continente (si sarebbero disgiunti nuclei tribali, separate amicizie fiorite sulle «carrette del mare». Non fosse mai), accertare, prima di prendere qualsiasi disposizione, l’esatto status d’ogni clandestino - indagando tra l’Alto Volta e la Tunisia in pieno caos da primavera araba - per poi maggiormente tutelare il rifugiato politico, il discriminato meritevole dell’asilo politico con relativo mantenimento a vita.
E intanto, adocchiata la pacchia gli sbarchi si susseguivano. E intanto, i clandestini prendevano a braveggiare, a lordare, a insolentire i lampedusani. Forti della loro arma cialtrona: accusare di razzismo chi li prendeva a male parole o, meglio ancora, a calci nel sedere. Accusa che sarebbe rimbalzata nelle Ong e nelle Onlus, nelle sacrestie dei preti di area multireligiosa, nel tinello della Vispa Teresa dando la stura alla consueta stucchevole indignazione.
Però si sa come vanno le cose: quando è troppo è troppo. E i lampedusani - eroi due volte, la prima nell’accoglierli la seconda nel mandarli a quel paese - dell’accusa di razzismo se ne sono fatto un baffo. Altro che Nobel. Santi. Santi subito.
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