Hisaye Yamamoto

Un Henry James in gonnella. Una Katherine Mansfield con gli occhi a mandorla. Un David Grubbs (o Lucile Fletcher, sceneggiatrice per Anatole Litvak) in incognito forse. Almeno per quella volta che, anziché far correre «la morte sul fiume» o «il terrore sul filo», convogliò il panico di un delitto, il sospetto di un'azione criminale, la tensione di un gotico noir sui binari di un treno. E partì con quel convoglio per la sua interminabile avventura narrativa. Non è ancora arrivata al capolinea l'avventura di Hisaye Yamamoto: la scrittrice con la gonnella, gli occhi a mandorla e un talento specialissimo per le incognite, i misteri celati, i segreti sottaciuti. Prosegue dal 1942 in cui, ventunenne, pubblicò su una rivista californiana il suo primo racconto, un giallo: La morte corre sui binari per Poston.
Fino al giorno d'oggi in cui, ottantasettenne, ancora vive nella California dove nacque nel 1921. È un'americana giapponese. O giapponese americana. Una nisei si dice traslitterando il termine nipponico nell'alfabeto Usa. Una figlia di immigrati nipponici nata già in Usa e cresciuta - all'indomani della Grande guerra, alla vigilia della grande crisi economica - con l'anima divisa a metà tra la cultura delle origini, gli antichi costumi del suo popolo, le inveterate tradizioni di famiglia e le mille seduzioni del Nuovo Mondo.
«Tout homme qui appartient réellement à deux cultures… perdait son âme», scriveva André Malraux. Ma lei, che realmente apparteneva a due culture, che aveva letto e citato La speranza dell'uomo di Malraux («wow! Una cosetta leggera, vero?», fa dire ridacchiando a uno dei suoi personaggi), per non perdersi d'animo trovò assai presto il filo, il treno e il binario per rinsaldare e ricucire i due margini del dissidio: segnando a più riprese punti e stazioni di raccordo.
Ha ricamato in punta d'ago componendo a tappe successive storie brevi questa maestra del racconto e del rammendo. Misuratissima. Per dare un'idea della sua misura basti dire che in Diciassette sillabe ci stanno tutte le storie composte tra gli esordi polizieschi degli anni Quaranta (il citato Death rides the rails to Poston) e i toccanti amarcord degli anni Novanta (l'autobiografico Florentine Gardens del '95, dedicato alla memoria del fratello caduto combattendo in Italia e sepolto nei Giardini fiorentini).
Diciassette sillabe - tradotto da Roberto Cruciani con appassionata fedeltà per Avagliano (pagg.268, euro 15), scoperto grazie all'attenta sensibilità di Stefano Fedele, l'autore della raffinatissima foto di copertina - contiene pressoché l'intera produzione di Yamamoto. E presenta per la prima volta in Italia (da oggi in libreria) una rassegna campione di colei che, considerata la maggiore scrittrice asiatico-americana vivente, di sé ribadisce da sempre con ironia: «Mi sento piuttosto una casalinga».
In effetti, moglie di un italoamericano, madre di cinque bambini il primo dei quali adottato prima del matrimonio, è stato più il tempo trascorso da lei tra i fornelli, il bucato, le camicie da stirare, i bottoni da riattaccare che non quello dedicato alla scrittura. Anche se pare che, tra una poppata e l'altra, sia riuscita per un periodo anche a fare la giornalista free-lance e la volontaria in una comunità cattolica per rifugiati. In tutti i casi, sarà proprio per questo che Yamamoto ha fatto di necessità virtù. Dell'esiguità di tempi, pagine e lunghezze un talento. E della massima stringatezza un'eloquente cifra di stile.
Non serve dire troppo. Non occorre svelare più di quanto è scritto. Nello spazio di tre versi - cinque più sette più cinque: è la metrica alterna dell'haiku, la classica composizione poetica giapponese evocata nel titolo del racconto che qui ampiamente anticipiamo - è detto tutto.
Tutto quel che si dice in questi racconti - su temi quali identità, femminilità, estraneità etnica e culturale, inamovibile etica patriarcale, razzismo, xenofobia, schizofrenia dei valori - non prende mai i toni espliciti della denuncia, della protesta, della dichiarazione o rivendicazione. Si intravede appena invece - e con sbalorditiva evidenza - la condizione dei cittadini giapponesi d'America. Li si vede deportati nei campi d'internamento all'indomani di Pearl Harbor, ghettizzati a little Tokyo nel dopoguerra, combattuti nell'intimo tra la fedeltà ai codici rurali, alle gerarchie familiari e l'inconfessabile smania di emancipazione, o tra la devozione al padre, al sacerdote buddista, alla cura meticolosa del giardino e la seduzione irresistibile di cinema, musica, letteratura americane.
Yamamoto, come la Rosie del racconto che qui presentiamo, ascoltava la madre recitare haiku senza capire molto e senza dire niente. Lei, laconica, ellittica, sapientemente precisa, preferisce citare Mary McCathy, Flaubert e Malraux, Henry James e Francis Scott Fitzgerald, Mishima (d'accordo… ) ma anche Dostoevskij e Victor Hugo. Intreccia insieme tutti i suoi fili catturando il dettaglio perfetto sotto la capocchia di uno spillo. Stuzzica sospetti e fantasie con la punta acuminata di una battuta. Spia le prospettive maiuscole della storia attraverso la cruna dell'ago.


E lascia affiorare il disegno del ricamo per via indiretta, mediata, o dimidiata, attraverso il risvolto della trama, il rovescio della tela: tra i due margini di un'anima come tra i bordi di una cucitura. Capito com'è che, con silenziosa pazienza giapponese, ha passato la sua vita lavorando davanti al caminetto a punto croce con tombolo rocchetto e ditale?

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