I 50 anni di Borg l’Orso di Wimbledon nel tennis di legno

Segnò la fine degli anni ’70 con la sua inconfondibile racchetta e lo sguardo di ghiaccio. «Solo ora sono ricco e felice»

Marco Lombardo

L’unica volta che l’hanno visto arrabbiato era il 1972: spaccò una racchetta e fu squalificato sei mesi. Per il resto Bjorn Borg è arrivato a 50 anni quasi in silenzio, in campo e fuori, nella mensolina dei ricordi in cui una generazione intera malata di tennis lo ha messo per sempre. Era l’Orso d’oro delle racchette e la seconda volta in cui ebbe un momento di disgusto fu nel 1980: stava per vincere Wimbledon per la quinta volta ma quel giorno capì che la vita poteva avere dei riccioli fuori posto. Nel caso in questione erano quelli di John McEnroe che gli aveva appena strappato il tie break più famoso della storia al quarto set anche se finirà poi per perdere al quinto per l’ultima volta la battaglia con il rivale a cui resterà legato per sempre. Tanto che, quando tre anni più tardi l’Orso appenderà la sua Donnay di legno al chiodo, Big Mac capirà che il tennis - il suo tennis - non sarebbe stato più lo stesso: «Dopo ho vinto ancora, e tanto. Ma non c’era più gusto». Lì a Wimbledon - sull’erba che noi generazione guardavamo attraverso i primi colori della tv, che vivevamo attraverso la lenta litania bon ton di Guido Oddo durante interi pomeriggi di calura estiva - Borg costruì tutta la sua leggenda, più che a Parigi (dove vinse addirittura sei volte), più che a New York dove alla quarta finale persa (indovinate da chi?) capì che era giunto il capolinea. Wimbledon era Borg prima di Federer, Londra era il suo giardino, anzi il nostro.
Eppure Bjorn Borg non aveva nulla del mito se non le vittorie. Sul campo si era costruito una tecnica infallibile e forse anche troppo semplice: «Il tennis è solo l’arte di rimandare la pallina oltre la rete una volta in più dell’avversario», diceva. Per farlo stancava rivali e pubblico con il suo rovescio a due mani, con le ore a spolverare gli angoli del campo sempre con la stessa cadenza, sempre con lo stesso sguardo stanco. L’unica eccezione era appunto Wimbledon, dove s’inventò anche giocatore di rete inaugurando la moda di buttarsi sull’erba dopo l’ultimo punto vincente. Perché la moda era lui.
Noi, dall’altra parte della tv, guardavamo ammirati, provavamo a tenere con le mani unite la racchetta, vestivamo lo stesso completino Fila senza ovviamente lo stesso risultato. Era unico, fino a quando - ritiratosi a soli 26 anni - provò ancora nel 1991 a Montecarlo una patetica rentrée armato della sua vecchia racchetta di legno senza più sponsor. Quello, il Borg della sconfitta al primo turno contro il pedalatore Arrese, era l’uomo sconfitto dalla vita, almeno secondo quello che i giornali disegnavano parlando di fallimenti economici e personali: il crac di un’azienda, quello di un paio di matrimoni, compreso quello con Loredana Bertè che noi - la generazione del Mito - avevamo digerito malissimo.
Così poi capiterà, molti anni più tardi (è storia recente), di parlare di un Bjorn Borg che decide di mettere all’asta gli stessi trofei che noi guardavamo con invidia: «Le vittorie sono nella mia testa, il resto non conta, mi sarei tenuto solo due racchette. Poi mi ha telefonato John: “Sei pazzo?”. Ho cambiato idea». E dunque niente asta, niente Isola dei Famosi (già, anche quello), niente di così terribile insomma: Borg dal fallimento economico si era già ripreso («lo ammetto, nella vita non ero allenato come nel tennis») e il resto è roba sua, è la sua vita di cinquantenne a caccia di case in Dubai che ora dice «non sono mai stato così ricco e felice».
Noi - quelli della generazione Borg - restiamo ancora in campo, sappiamo che lo vedremo ancora una volta per un’esibizione contro il suo vecchio amico-nemico, festeggiamo con malinconia i suoi 50 anni che sono parte di una vita forse più lieve.

E ricordiamo perfettamente quel tie break perso, alla fine del quale la Leggenda sussurrò: «È incredibile». Già, incredibile: quando Borg sollevò il suo ultimo trofeo a Wimbledon noi spegnemmo la tv. E, più o meno in quel periodo, diventammo uomini.

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