Dayton addio. Ventitré anni dopo gli accordi che misero fine ai massacri di Bosnia i fantasmi dello scontro etnico religioso e i timori di una nuova terribile guerra tornano ad agitare i Balcani. Dalla Bosnia al Kosovo fino alla Macedonia, tre ex repubbliche jugoslave teatro tra 1992 e il 2002 di guerre civili e interventi stranieri seppur di diversa entità, odi e rivalità stanno tornando al punto di ebollizione. Ma con una differenza sostanziale. Nel giugno 1991 il segretario di Stato Usa James Baker ripeteva «non abbiamo un cane in quella lotta», facendo intendere la sostanziale indifferenza degli Stati Uniti di fronte allo scontro tra Serbi, Croati e Musulmani.
Ventisette anni dopo Washington ha, invece, posizioni molto più chiare. I nemici da bloccare nelle strategie del Dipartimento di Stato e del Pentagono sono la Russia di Vladimir Putin e i suoi presunti amici serbi, mentre gli alleati da preservare e difendere sono i musulmani di Bosnia, le minoranze albanesi in Macedonia e il governo del Kosovo. Il tutto con l'acritico appoggio degli euroburocrati di Bruxelles incapaci di esprimere una visione autonoma e indipendente anche su questioni riguardanti gli assetti del vecchio continente. Ma il vero problema, come ammesso nel 2015 da John Kerry, segretario di Stato dell'Amministrazione Obama, è che i Balcani sono oggi la «linea rossa» nello scontro tra Nato e Russia. La questione è quanto mai evidente in Macedonia. In questa piccola Repubblica dell'Ex Jugoslavia, l'Alleanza Atlantica e l'Unione Europea, spalleggiate dagli Stati Uniti, hanno fatto di tutto per convincere gli elettori a votare «sì» nel referendum dello scorso 30 settembre destinato, nelle intenzioni del premier Zoran Zaev, fedele alleato di Bruxelles e Washington, a legittimare l'adozione del nuovo nome di Macedonia del Nord. Il «sì» avrebbe messo fine alla contesa con Atene, contraria fin dal 1991 all'entrata di Skopje nell'Unione Europea e nell'Alleanza Atlantica, nel timore che il nome Macedonia giustifichi future mire sull'omonima regione greca. Ma il referendum, decisivo per strappare la Macedonia all'area d'influenza di una Russia vicina all'opposizione nazionalista, si è rivelato un autentico buco nell'acqua. Nonostante gli inviti e le pressioni per il sì, accompagnate dalle visite a Skopje della Cancelliera tedesca Angela Merkel, del Segretario Generale della Nato Jens Stoltenberg e «dulcis in fundo» del Segretario della Difesa statunitense Jim Mattis, volato nella capitale macedone alla vigilia del voto, solo il 37 per cento degli elettori si è recato alle urne.
Così, nonostante il 91 per cento di sì, il referendum è stato invalidato per il mancato raggiungimento del quorum del 50 per cento. Nonostante l'evidente successo dell'opposizione nazionalista, schieratasi per il boicottaggio, Ue, Nato e Stati Uniti hanno invitato il premier Zaev a non demordere appoggiando la decisione di far passare l'adozione del nuovo nome attraverso un voto parlamentare a maggioranza assoluta. Una decisione costituzionalmente dubbia che però l'Alto Responsabile per la politica estera Ue Federica Mogherini, ha definito «un'opportunità unica per la riconciliazione nei Balcani». Ma anche qui la vittoria è tutt'altro che certa. Dopo il dibattito in aula iniziato lunedì scorso, il governo, guidato dal socialdemocratico Zaev e appoggiato dalla minoranza musulmana, ha dieci giorni di tempo per arrivare allo scrutinio e aggiudicarsi gli 80 voti su 120 capaci di garantirgli il quorum dei due terzi. Un obbiettivo apparentemente impossibile visto che i nazionalisti contano su almeno 49 seggi. Ma a far la differenza potrebbe pensarci la magistratura. Proprio lunedì 16 ottobre è iniziato anche il procedimento per togliere l'immunità e garantire l'arresto di una dozzina di parlamentari nazionalisti accusati di avere spiato le conversazioni degli avversari politici. Il giochino garantirebbe a Zaev il quorum, mentre Nato, Unione Europea e Stati Uniti si aggiudicherebbero un nuovo tassello del complesso risiko balcanico. Ma si tratterebbe di un tassello esplosivo capace di frantumarsi sotto i colpi della pressione interna e innescare scontri analoghi nelle regioni circostanti.
In Kosovo a rialzare paure e diffidenza contribuiscono le non proprio avvedute dichiarazioni di John Bolton, il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, pronunciatosi a fine agosto per uno scambio di territori su base etnica. Il progetto di Bolton garantirebbe il ritorno delle zone settentrionali a maggioranza serba sotto il controllo di Belgrado mentre la valle di Presevo, abitata in prevalenza da albanesi, ma ufficialmente serba, passerebbe a Pristina. Il ritorno al concetto di divisione etnica, nonostante il furore anti russo che anima Bolton, promette di portare acqua al mulino dei serbi di Bosnia, ovvero dei migliori amici di Mosca favorevolissimi all'idea di una secessione da quella sorta di mini federazione di stampo jugoslavo decisa ai tempi di Dayton. Durante quei negoziati proprio la volontà di far tornare alla convivenza le comunità divise dalla guerra portò alla decisione di dar vita a una Bosnia suddivisa tra croati, bosniaci e musulmani, ma governata da una presidenza a rotazione sullo stampo di quella inventata per la defunta Jugoslavia dal Maresciallo Tito.
Il successo nel voto dello scorso 8 ottobre di Milorad Dodik, il leader nazionalista dei serbi di Bosnia, minaccia però di far saltare il meccanismo messo a punto a Dayton 23 anni fa. Appoggiato dai russi, tornati a essere con Putin i grandi protettori della nazione serba, Miloran Dodik minaccia di rompere con la presidenza a rotazione e di spingere i serbi di Bosnia all'autodeterminazione e all'indipendenza.
Un passo che minaccia di far saltare tutti i meccanismi di pacificazione e garantire, proprio grazie alle posizioni del Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, un nuovo successo di Mosca nel cuore di quei Balcani trasformati in un'altra «prima linea» dello scontro tra Usa e Russia.
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