I big del ciclismo: fermiamo le bande, non le bici

Intanto Tour e Wada minacciano l’Uci: «Faremo da soli, ridicoli i suoi controlli»

Giornali listati a lutto, toni da Apocalisse, clima irrespirabile sulle strade del Tour. Greg Lemond, primo americano a vincere la Grande Boucle, chiede che la «sua» corsa «arrivi a Parigi senza un vincitore». Cristiano Gatti, su queste colonne, ha chiesto una pausa di riflessione, uno stop per riordinare le idee e riscrivere le regole. Da oggi a fine anno. «Io posso capire il senso della proposta, ma non la condivido – dice Felice Gimondi, indimenticato campione a cavallo degli anni Sessanta e Settanta -. Questo è il mio mondo, questa è la mia passione da sempre e una decisione del genere non potrei mai avallarla. Io invito tutti a credere ancora in questo sport. È vero, tanti sono i casi di positività, ma i bari vengono beccati, li abbiamo presi. Oggi la lotta al doping è forte, molto più forte di prima. I corridori devono capire che è finita la ricreazione e chi bara va a casa. Bisogna però piantarla di litigare, serve trovare una linea comune».
Angelo Zomegnan, il direttore del Giro d’Italia, rifugge all’idea di fermare il ciclismo. «Di solito ci si ferma quando non si sa dove andare. Noi, invece, sappiamo dove andare anche se non sappiamo dove arriveremo e con chi». Ma l’idea di trovare un punto d’incontro, invocato da Gimondi, la vede poco praticabile. «Credevamo che Mc Quaid fosse un clone dell'ex presidente dell'Uci, Hein Verbruggen, ma è un clone venuto male. Voglio lavorare per un ciclismo che magari non sarà pulitissimo, ma voglio lavorare con persone intellettualmente oneste. Che abbiano poche e chiare regole e che soprattutto le sappiano far rispettare».
L’idea di fermarsi non dispiace, invece, a Moreno Argentin, ex campione del mondo. «Io mi fermerei: sei mesi, un anno, il tempo per riscrivere le regole e rimettere le cose a posto. Oggi il problema centrale è il governo mondiale della bicicletta che, anziché risolvere i problemi, crea confusione e conflitti e temo anche che usi l’antidoping per esercitare controllo e potere. Bisogna arrivare a creare una nuova struttura giuridica fuori dall’Uci, che gestisca il professionismo in modo forte e chiaro. All’Uci spetti il controllo, a questa nuova entità il ruolo di creare e gestire lo spettacolo. Si deve ripartire dai tre grandi Giri, dalle grandi corse, che sono il vero patrimonio del ciclismo assieme ai corridori. Bisogna saper tutelare gli sponsor e metterli nelle condizioni di poter avere dei ritorni d’immagine forti e chiari. Invece l’Uci ha ingaggiato da anni un braccio di ferro stucchevole e autolesionista. Mi sembrano solo dei Tafazzi».
Tuoni e fulmini sull’Uci scatenati ieri persino da chi gestisce il Tour e la lotta al doping. Il direttore della Grande Boucle, Christian Prudhomme, ha rotto con l’Unione Ciclistica Internazionale che «non serve a nulla, non ha mai voluto un Tour pulito» e che «non fa molti controlli intelligenti. Nel 2008 non collaboreremo più con loro ma con la Wada (Agenzia mondiale anti doping, ndr) e con l’Agenzia francese anti doping». Nelle stesse ore la Wada rincara la dose con una bordata del presidente Dick Pound: «Non si possono controllare solo la maglia gialla e altri quattro, non è rilevante. Ciò che è successo in questo Tour è peggio del caso Festina del 1998».
È guerra aperta. Servirebbe una tregua senza bici sulle strade? «Il problema vero è cosa fare e a chi farlo fare – dice Claudio Chiappucci –. Fermiamoci, cerchiamo di ragionare, ma chi tira le fila? Siamo al paradosso: possiamo anche darci un appuntamento, ma il rischio è che all’incontro nessuno si presenti».
Gianni Bugno prende le distanze dall’eterno rivale. La pensa come Gimondi: «Macché fermare il ciclismo. Il calcio un anno fa si è fermato? Sono stati travolti dallo scandalo di calciopoli ma hanno reagito. Anzi, siamo andati al mondiale e l’abbiamo pure vinto.

Il doping è un problema ma nonostante quello che si possa pensare, non è il problema più grande del ciclismo. Sono le lotte tra bande che stanno uccidendo questo sport. E’ la miopia di certi dirigenti che rendono ingovernabile il movimento. I corridori hanno mille colpe, ma non sono solo i corridori ad essere colpevoli».

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