La prigione di Copenaghen si chiamava Vestre Faengsel, Prigione dell'Ovest. Aveva la struttura classica del XIX secolo, massiccia e insieme inutilmente decorata, con tanto di ingresso monumentale. Lontana dal centro abitato, per chi, in quell'inizio del 1946, si recava a fare visita ai detenuti era un vero e proprio viaggio: ancora scarsi gli autobus, altrettanto rari, e costosi, i taxi. Ogni lunedì, a partire da febbraio e fino a ottobre dello stesso anno, Lucette Almansor faceva quel tragitto per vedere il marito, il dottor Louis-Ferdinand Céline, arrestato nel dicembre dell'anno prima, chiuso nella cella 603, poi nell'infermeria della prigione, infine nella cella 609. A prenderlo era andata la polizia danese, «quattro burattini con le pistole, un nero piccolino, un rosso, due biondi - Mani in alto», e lui per un momento aveva pensato di sparargli contro, credendo fossero falsi (...)
(...) poliziotti e veri assassini... Dietro quell'arresto però c'era la giustizia francese, un'accusa di alto tradimento, la richiesta di estradizione. Tradire il proprio Paese comportava allora la pena di morte e quindi essere estradato voleva dire finire ammazzato. Così la linea difensiva di Céline era respingere l'accusa, certo, ma chiedere in più l'asilo politico in quanto, appunto, perseguitato politico.
L'amministrazione penitenziaria forniva a chi ne faceva richiesta dei quaderni scolastici, 17 per 22 centimetri per 32 pagine con le righe in totale, graffettate centralmente, una copertina rigida illustrata con immagini storiche della Danimarca. Le regole per il loro utilizzo prevedevano un «uso corretto»: niente scrittura fuori dalle righe, ai margini o sulla copertina, niente pagine strappate, nessuna informazione sul motivo per cui si era dentro, né sulla detenzione in sé, niente scritti pornografici. Violarle significava la requisizione del quaderno e magari una punizione. Ogni sera, infine, una guardia ritirava il quaderno e lo riconsegnava il giorno dopo...
Il problema era che con Céline regolarsi era difficile: prima e più che un detenuto in attesa di giudizio, era uno scrittore. E gli scrittori «sono come gli uccelli, ogni rumore li fa cantare», e di rumori il carcere era pieno... L'unica differenza, semmai, è che «i passerotti hanno più dignità di me, si rifiutano di vivere dietro delle sbarre, sono tanto spensierati quanto eroici. In gabbia muoiono, io sopravvivo e li guardo e mi vergogno». La miseria di essere uomo...
Cahiers de prison. Février-Octobre 1946 (Gallimard, pagg. 264, euro 20; a cura di Jean Paul Louis) è la prima edizione originale e integrale di quanto Céline scrisse confinato nello spazio ristretto di una cella: elementi per la sua difesa; annotazioni sulla Danimarca; ricordi di Londra e di Montmartre; continuazione di Guignol's Band e inizio di Féerie pour une autre fois; passaggi della cosiddetta Trilogia del Nord, elenchi di nomi, di persone, di luoghi, nomi reali, nomi di fantasia, deformazione degli uni come degli altri. È, se si vuole, anche uno straordinario documento per vedere come funziona la «cucina» di uno scrittore: tagli, rielaborazione, ricerca di un ritmo, cancellare e rifare...
Soprattutto però i Cahiers sono interessanti per la logica nella quale sono scritti. Céline lotta sì per la sua vita, ma è la sua vita di artista quella che gli interessa, il suo status. Non è tanto o solo un cercare di spostare le accuse da un capo all'altro, dal collaborazionista al romanziere... È l'identificarsi con una condizione che è tutt'uno con la storia di Francia: «La Francia in ogni epoca si è sempre mostrata feroce con i suoi scrittori e poeti, li ha sempre perseguitati, braccati, imprigionati i suoi scrittori, quanto le era possibile». E quindi, e dunque: «A me Cartesio! A me Voltaire! A me Chateaubriand! A me Hugo!» è il leitmotiv di questi quaderni, il richiamo a sorti comparabili alla sua, il fare parte di una stessa famiglia, quella «degli scrittori in carcere e in esilio».
Fra di essi, è Chateaubriand ad avere lo spazio maggiore, e per più di un motivo. Innanzitutto, le sue memorie sono scritte «dall'oltretomba», ovvero è un vivo che si considera già morto, e cos'altro è Céline se non un morto che cammina e a cui in vita nessuno vuole prestare più attenzione... ? E però, come dice René, così egli chiama il suo illustre predecessore, «voi giovani generazioni lasciate venire due, tre anni e allora direte davanti alla mia tomba dove sono finite le vostre illusioni di oggi».
Del resto, chi non prova quello che Céline sta provando, non può capire: «Sta alla disgrazia il compito di giudicare le disgrazie - diceva Chateaubriand -. Il cuore volgare della prosperità non può comprendere i sentimenti delicati della sfortuna». Céline prende nota e sottoscrive. Così come sono i giudizi sulla Francia a colpirlo: «Una nazione malata rimane a lungo a letto prima di morire» e cos'altro sta facendo la Francia che si illude di sfuggire alla decadenza digrignando impotente i denti?
Il problema è che Céline, nonostante tutto, è francese: «Ibi bene, ibi patria, non è roba per me. La patria è il bene». Lo è perché ha «la malattia del campanile», lo è perché «come René sogna la Francia, l'anima della Francia, così l'ho sognata anch'io, miserabile cane barbone: palpitante di una certa vita, di un fondo di calore, sbarazzata, epurata di questi, di quelli».
Fra letture, ricopiature di citazioni, continue riscritture, dialogo ideale con i grandi del passato, Céline passerà così i suoi giorni di carcerato. A volte, visto come si va indebolendo giorno dopo giorno, gli viene l'idea che «se resto in prigione ancora per qualche settimana, non sarò nemmeno più capace di difendermi in Francia». A volte, la solitudine che lo circonda gli fa venire «un sentimento di gelosia verso i morti del cimitero» che fiancheggia proprio uno dei lati del carcere: «Vi si vedono circolare i visitatori, numerosi la domenica. Visite lunghe. Noi niente, una vota a settimana, 10 minuti». A volte ciò che lo fa infuriare è il ritrovarsi come il solo colpevole di una Francia che, in punto di diritto, si è comportata al suo stesso modo: un governo allora legale, quello di Vichy, di colpo divenuto emblema di tradimento e di cui l'unico abitante-traditore rimasto è lui... Anche qui Chateaubriand gli viene in aiuto: «Non è uccidere l'innocente in quanto tale che perde la società. È ucciderlo come colpevole».
Mai scritto un articolo, mai pagato per scrivere un articolo, mai collaborato, mai perseguitato direttamente qualcuno. La difesa di Céline dalle accuse di antisemitismo è nota, ed è in queste pagine che viene abbozzata e rifinita per la prima volta. C'è del vero e c'è del falso, così come i tribunali speciali faticano a nascondere, dietro il loro status giuridico, il fatto che «non hanno nulla in comune con la giustizia, nascono sempre da grandi crisi politiche e militari. San Bartolomeo, la Fronda, Terrore '89, Terrore giugno '48, Terrore della comune '71 etcetera. Rappresentano una grande vergogna della Storia dei Francesi».
Anche l'antisemitismo di Céline è noto e il suo negarlo assume in questi quaderni tratti singolari e meschini, fino a mettere in discussione le persecuzioni in Francia, ridotte a qualche confisca e una «piccola stella» gialla... Sminuirle, è un tutt'uno con l'ingrandire la propria, di persecuzione, e anche questa è una linea di difesa... Quanto al suo essere stato un campione della razza ariana: «Due anni di supplizio e imprigionato come un topo. Si è alzata una sola voce di Ariano in questa Europa abbrutita di 500 milioni di Ariani per difendermi? Non parliamone più.
Ah, se fossi stato ebreo, un solo calcio in culo e tutto il pianeta sarebbe entrato in convulsione parallela e longitudinale. Che fremito atomico!».Pentirsi? Pentirsi dietro le sbarre? «L'unico fiore che sboccia in galera è l'odio».
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