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I duellanti Kasparov-Karpov e la partita che non vuole finire

I due scacchisti tornano a battersi 25 anni dopo l’epica sfida di Mosca durata 5 mesi. Solo uno sport così violento può generare un «odio» eterno

I duellanti Kasparov-Karpov  
e la partita che non vuole finire

Se gli scacchi siano un’invenzione di Dio o del demonio, lo discutevano già i Papi nel medioevo, senza che nessuno sull’argomento sia arrivato a offrire una risposta di fede. Che siano invece lo sport più violento che esista, più violento e pericoloso della boxe, più fulmineo nella sua risoluzione di una gara di cento metri piani e più massacrante nella sua durata di una maratona, non si sa esattamente chi l’abbia detto. Ma tutti sanno che è vero. Tutti sanno che sopra, attorno, dentro quelle sessantaquattro caselle bianche come la vita e nere come la morte c’è l’intero spettro delle passioni che l’essere umano nella sua esistenza, dall’estasi al terrore. L’estasi della vittoria, il terrore della sconfitta. E la partita è la vita.
La partita più bella della bimillenaria storia degli scacchi è iniziata 25 anni fa, nel settembre del 1984 a Mosca e non è ancora finita: dopo una lunga pausa, riprenderà oggi, a Valencia. In palio non c’è più il titolo di campione del mondo come allora, quello è un dettaglio ormai. Ma qualcosa di maggior valore, se possibile: questa volta ci si gioca l’onore.


Da una parte del tavolo, come sempre, prenderà posto il «papa» degli scacchi, il dogmatico delle sessantaquattro caselle, il «conservatore», il russo puro dalla tecnica perfetta, il metodico razionale, il savio: Anatolij Evgen’evic Karpov.
Dall’altra parte del tavolo, come sempre, prenderà posto l’«anti-papa», l’eretico delle sessantaquattro caselle, il «rivoluzionario», l’azero dal talento infinito, il genio irruento, il pazzo: Garri Kimovic Kasparov.
Da quella prima volta che i duellanti si sono incontrati e hanno iniziato a odiarsi di quel furore che solo gli scacchi sanno suscitare, sono cambiate molte cose. L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche non esiste più, la guerra fredda è finita, l’Armata Rossa che strategicamente veniva spostata dal Politburo sulla grande scacchiera del pianeta si è dissolta, è cambiato il modo stesso di combattere le guerre, è mutata l’economia, la società, la politica, da una parte e dall’altra del Muro, che pure è caduto. Ma i duellanti sono ancora lì, immobili e immutati, impietriti, in bianco e nero, come il Cavaliere e la Morte. La partita continua. La Sfida, per essere davvero tale, deve essere eterna.

Si ritroveranno oggi a Valencia per una esibizione che nel mondo degli scacchi suscita attesa, commozione, curiosità. Per Kasparov e Karpov significherà solo una cosa, la stessa di sempre: sofferenza. Venticinque anni fa, nel glaciale silenzio della sala delle Colonne, al Cremlino, in quell’epico scontro, i due figli giganti del più antico gioco del mondo soffrirono ininterrottamente dal settembre del 1984 al febbraio del 1985. Per conquistare il titolo di campione erano necessarie sei vittorie. I due Maestri giocarono 48 partite. Karpov ne vinse cinque, Kasparov tre, le altre 40 finirono in pareggio, fino a che la Federazione Internazionale decise di sospendere la sfida a salvaguardia della salute mentale dei contendenti. Karpov e Kasparov fino a quel momento erano rimasti seduti davanti ai loro pezzi per oltre 200 ore, avevano mosso 1652 volte, e avevano perso cinque chili di peso uno, sette chili l’altro. Quando non giocavano, studiavano. E quando non studiavano, giocavano. Le ore di sonno erano ridotte al minimo. La tensione psico-fisica era al punto di rottura. Ma se non li avessero interrotti, entrambi avrebbero continuato a giocare, sarebbero andati avanti all’infinito, come in quelle stampe antiche in cui si vedono due giocatori che cominciano la partita ragazzi e la finiscono vecchi.

All’epoca Garri Kasparov, che sarebbe stato campione del mondo dal 1985 al 1991 per l’Urss e poi fino al 2000 per la Russia, aveva appena 21 anni. Era uno squattrinato giovane ribelle che non accettava la disciplina del partito. Oggi ha 46 anni, è miliardario, ed impegnato in politica sul fronte anti-Putin. Anatolij Karpov, campione del mondo dal 1975 al 1985 per l’Urss, aveva 33 anni. Funzionario di lungo corso del Pcus particolarmente gradito al Cremlino, ebbe l’Ordine di Lenin appuntato sul petto da Breznev in persona. Oggi ha 58 anni, si dedica agli affari e gioca raramente in competizioni ufficiali. Da allora, Kasparov e Karpov si sono incontrati 161 volte, di cui 144 per il titolo mondiale, per un numero infinito di ore di gioco. Kasparov ha vinto 24 partite, Kasparov 20. Tutte le altre sono finite in parità.

«Vi sono più avventure su una scacchiera di quante ne accadono su tutti i mari del mondo», ha detto una volta il poeta francese Blaise Cendrars. Kasparov il genio e Karpov il logico hanno scritto le più belle di quelle avventure. Kasparov con il suo gioco d’attacco, scintillante, fatto di sacrifici e varianti estreme, lo stile aggressivo e dinamico, con la fantasia e l’aggressività. Karpov con il suo gioco posizionale e attendista, la strategia inesorabile, l’assoluta maestria nei finali, lo stile logico e razionale, con l’implacabilità del «freddo assassino».

La sfida tra i due titani della scacchiera, i due «K» che con la loro forza di gioco hanno rifondato quella particolare forma di filosofia matematica che sono gli scacchi, dura da 25 anni, tra match e riposi. Al nuovo duello di Valencia si sono preparati con cura, come sempre. Kasparov si è allenato in Norvegia con il giovane prodigio Magnus Carlsen, 18 anni; Karpov si è isolato per una settimana sulla costa spagnola lavorando con diversi maestri e il computer.
Oggi torneranno a sedersi uno di fronte all’altro e ricominceranno a odiarsi, come sempre. Chi vincerà, è indifferente. Shah Màt.

Comunque finirà, morirà un re.

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