Dovevan essere 200, giovani e forti. Domenica da Bologna gli organizzatori della Festa tricolore avevano preparato quattro pullman per portare i futuristi dai portici felsinei alle campagne di Mirabello. Di navetta ne è bastata una sola, a bordo una quindicina di persone, alcune delle quali trascinate di malavoglia dal consorte. Nel pomeriggio di domenica, sulle praterie di Vittorio Lodi, i bus non raggiungevano la decina. Da Friuli, Veneto, Lombardia, Liguria. Sud non pervenuto.
Il confronto con la Mirabello 2010 è impietoso. La gente seduta, gli applausi telecomandati, gli stand senza fantasia, la grande fuga appena concluso il discorso di Fini: lanno scorso le code di auto e scorte intasarono la pianura ferrarese fino a tardi, domenica si sono esaurite prima di cena. Niente dirette tv, nessun Mentana a dibattere sul futuro del presidente della Camera. Dodici mesi dopo, la rottura dal Pdl è metabolizzata senza ripensamenti. Quello che ancora bisogna digerire sono le prospettive di Fli.
Di nuovo, a Mirabello, cera sicuramente il gazebo dellOfficina delle idee, nata a gennaio. Vi si raccoglievano sottoscrizioni per il referendum anti-Porcellum e proposte per il ruolo del presidente. Sotto la tenda bianca con la compagna Elisabetta Tulliani, Fini si è guardato dal firmare la mozione referendaria; in compenso, ha saputo che dal sondaggino volante dellOfficina il 90% dei militanti lo vorrebbe alla guida del partito a tempo pieno, anche a costo di mollare la poltrona di Montecitorio. I «buuh» alla fine del comizio lo confermano.
Che cosa resta del Fli un anno dopo quel 5 settembre 2010? Allora il clima era rovente, la scissione dal Pdl risaliva a 40 giorni prima, teneva banco la polemica sulla casa di Montecarlo (Fini bollò di «infamia» la campagna del Giornale). La domanda di tutti era se lo strappo avrebbe partorito solo i gruppi parlamentari autonomi o un partito nuovo. Da allora è stato presentato il Manifesto per lItalia, fondato il Fli, abbracciato il Terzo polo, conquistato un irrisorio 2,5% alle amministrative. I referendum su acqua e nucleare hanno spaccato il Fli a metà.
I falchi hanno fatto piazza pulita delle colombe. Il gruppo a Montecitorio è sceso da 33 a 26 deputati, quello di Palazzo Madama si è sciolto per anemia: i senatori erano 10, ora sono 6. Che paradosso: il partito nato sullindice di Fini alzato contro Berlusconi («che fai, mi cacci?») non ha tollerato le minoranze meno intransigenti. Pochi ma buoni, era il ritornello auto-consolatorio di domenica, pietoso anestetico sulla ferita che brucia.
Un anno dopo, Italo Bocchino snocciola dati trionfalistici: «Abbiamo messo radici sul territorio, celebrato i congressi, piantato bandierine in ogni angolo dItalia». A Fini viene consegnata la tessera numero 1: gliela mette in mano lavvocato Giuseppe Consolo. Ma poco dopo è lo stesso leader a ricordare che la forza del partito non devessere lorganizzazione ma la capacità di capire i bisogni della gente.
In realtà lunico collante di Futuro e libertà resta lantiberlusconismo a oltranza: una carta vecchia e poco credibile in mano a chi per 15 anni è stato il vice del cattivo. Fini è salito per ultimo sul carro degli anti-Cav. Sul groppone ha lennesimo passato da far dimenticare ma nessuna proposta, niente spunti originali o guizzi imprevisti, tutto previsto e prevedibile. Non sorprende nemmeno lapprodo a Mirabello di Marco Travaglio, nuovo guru futurista. Che ha chiesto invano le dimissioni di Fini da Montecitorio.
Gli intellettuali non seminano certezze ma dubbi sul domani del Fli: Flavia Perina, sul Futurista distribuito domenica, critica «lappannamento» del partito, il mai reciso «cordone ombelicale con il Pdl», le scelte sbagliate alle amministrative e al referendum, e poi «paura, timidezza, difficoltà a navigare nel mare aperto di unItalia che sta cambiando. Non possiamo più gingillarci nella retroguardia del dibattito politico» prorompe lex direttore del Secolo.
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