«I miei sei anni di inferno nella giungla»

«Alle quattro del mattino mi sono svegliata. Ho preso il rosario iniziando a pregare. Ero nella mani di Dio. Speravo che arrivasse presto il giorno della liberazione, almeno per uno di noi», racconta Ingrid Betancourt descrivendo le ore precedenti al suo rilascio. «Alle 5 pensavo a mamita (la madre)», come ogni mattina per quasi sette anni passati nell’inferno della selva colombiana. Con una vecchia radiolina scassata la Betancourt poteva sentire all’alba i messaggi e le parole di conforto di Yolanda Pulecio. La mamma ex senatrice, che partecipava a una trasmissione radiofonica per gli ostaggi.
Mercoledì mattina, però, era destinato a essere un giorno diverso. Il capo dei carcerieri aveva detto alla Betancourt che sarebbe stata imbarcata su un elicottero con altri sequestrati. «Gli chiedevo se ci portavano a parlare con Alfonso Cano o Mono Jojoy (i capi della guerriglia nda) e lui mi ha fatto capire che era qualcuno di molto importante. Il cuore sembrava che mi si spezzasse» racconta appena liberata la franco-colombiana. Dal 2002 viveva «su un’amaca legata tra due pali, coperta da una zanzariera e con sopra una tenda come tetto e che mi faceva illudere di vivere in una casa». Accanto una mensola dove metteva le sue poche cose: la sacca con i vestiti e una Bibbia, che definiva «il mio unico lusso». Lunghe marce estenuanti nella selva dove gli ostaggi «dormono come animali in qualsiasi buco capiti».
Il giorno della liberazione le parlano dell’elicottero e non vuole crederci. «Per sei anni ho sentito elicotteri che passavano sopra la giungla e mi si accelerava il battito cardiaco. Ogni volta ho pensato: questa volta ce la facciamo. Ma poi ci sono state sempre delusioni», spiega l’ostaggio tornato alla libertà. Invece questa volta è tutto vero. Del capo dei suoi carcerieri catturato dai corpi speciali racconta: «Mi aveva umiliato, vessato per quattro anni. Era crudele, dispotico, ma per lui ho provato solo pietà» quando l’ha visto legato e bendato. E poi aggiunge: «Quante volte ho desiderato uscire dalla giungla solo per vivere questo momento: abbracciare i miei figli».
I carcerieri non le permettevano nemmeno di fare una torta finta il giorno del compleanno dei suoi ragazzi. Le avevano sequestrato i jeans che portava quando è stata rapita. Un colpo, perché erano un regalo della figlia Mélanie per Natale. La prima notte in libertà l’ha passata a casa a Bogotà, con il secondo marito, senza chiudere occhio. Gli ha raccontato tutto. Nella selva non aveva più voglia di mangiare le solite cose: «Qualche biscotto, una zuppa con un po’ di riso e di fagioli». Da tre anni chiedeva un dizionario enciclopedico per tenere la testa occupata. Quando le chiedevano una lettera o di farsi riprendere, come prova che era ancora viva, crollava. «Ogni volta era un dolore perché ci umiliavano. Sapevamo che avrebbero utilizzato lo strazio delle nostre famiglie per premere sul mondo intero», ha raccontato la Betancourt.
Assieme alla speranza di venire liberata perdeva le forze. Le malattie la debilitavano. Per qualche mese l’epatite B stava per ucciderla. Una volta rilasciata, in condizioni decenti di salute, ha raccontato chi l’ha salvata.

«I militari ed i poliziotti che mi hanno fatto compagnia in questi 7 anni (pure loro ostaggi nda) e in particolare William Perez», spiega Ingrid. Un infermiere militare, piccoletto con i baffetti, anche lui liberato. La Betancourt lo stringe a sé davanti alle telecamere e aggiunge: «Se non ci fosse stato William, quando stavo male, oggi non sarei qui».

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