Se poi ci pensi, i Muse sono il vero gruppo controcorrente: suonano un rock indefinibile, duro ma sinfonico, con un orecchio a Chopin e l'altro ai Queen e a Morricone, che piacerebbe agli hippy di Woodstock ma attira pure plotoni di ragazzini nati dopo Tangentopoli. Vendono dischi a palate, dodici milioni di copie l'ultimo aggiornamento. E loro, che sono tre trentenni dell'impronunciabile Teignmouth nel grigissimo Devon inglese, sono gli unici a non cadere nel tranello più di moda: il gossip.
Per la strada il leader Matthew Bellamy (fidanzato, pare ex, con l'italiana Gaia Polloni), Dominic Howard e Chris Wolstenholme non li riconosce quasi nessuno, altro che paparazzi. Eppure ieri hanno riempito lo stadio di San Siro con un concerto che se lo ricorderanno in molti: un palco lungo oltre sessanta metri con effetti in 3D, uno strano aggeggio stile Ufo che a un certo punto ha sorvolato la platea, una mitragliata di canzoni da far tremare i muri.
Volendo, ce n'è da camminare tre metri sopra il cielo. E invece il bassista Chris fuma la pipa nei camerini placido come un Lord e tutt'al più si concede una battuta: «Alla nostra età forse i Rolling Stones e gli U2 non riempivano ancora gli stadi ».
Già.
Per di più lo fate a volume
altissimo.
«Il rock ha bisogno di essere
rumoroso».
Ma poi i vicini si arrabbiano.
A Milano chi abita vicino a San Siro ha fatto molto
più rumore protestando.
«Capisco le lamentele, ci sono anche nel nostro paese natale.
Ma è pure vero che i concerti
a San Siro sono tre o quattro all'anno e l'alternativa è non averne
neanche uno. Mi sembra
peggio».
Voi comunque non badate
a spese, quanto a fracasso.
«D'altronde una delle nostre
grandi influenze sono stati i Rage Against the Machine.
Abbiamo
suonato insieme qualche
giorno fa al Festival Rock am
Ring e sono decisamente la
band più potente che abbia
mai visto dal vivo».
Però in concerto siete più
spettacolari.
«Che noia i soliti palcoscenici.
Per i nostri show volevamo
un palco che sembrasse un edificio,
con video disegnati specificamente per effetti in 3D e luci
in grado di cambiare l'aspetto
della struttura».
In più c'è un ufo che salta
fuori all'improvviso.
«Sì, si alza e si abbassa sulla testa della gente.
Ci è sempre piaciuto
interagire con il pubblico».
Però cominceranno le solite dietrologie.
Il vostro ultimo
cd «The resistance» è
stato molto influenzato da
«1984» di George Orwell e
la fantascienza vi è sempre
piaciuta. Diranno che l'ufo
è il simbolo o la parodia di
qualcosa.
«No, non se ne parla neanche.
L'abbiamo fatto solo per divertirci:
non c'è altro significato».
Sugli spalti ci sono pure
enormi palle bianche.
«Lì un riferimento c'è. Ma è
presto detto: ricordano il telefilm
The prisoner (in italiano Il
prigioniero, su Raidue tra i ’70 e
gli '80 - ndr). Erano quelle che
imprigionavano uno dei protagonisti,
l'agente Numero 6».
Quanti riferimenti al passato.
«Le band inglesi sono molto
influenzate dal passato. D'altronde
è molto difficile essere
del tutto originali. E forse non è
neanche consigliato: il pubblico
non capirebbe».
Voi siete la terza via: mescolate
la tradizione in un modo
imprevedibile.
«E mi viene anche da dire una
cosa: la musica classica è spesso più moderna di tanto pop anni
Sessanta o Settanta. Ci sono
arie e sinfonie scritte secoli fa
che sembrano più attuali di canzoni
che hanno pochi decenni».
Quando avete esordito, gli
inglesi dicevano che non
eravate «radio friendly». Insomma, che alle non andavate
bene alle radio.
«E adesso siamo a San Siro.
Dico: San Siro, uno degli stadi
più famosi del mondo».
Mica facile per tre ragazzi
di provincia.
«Quando sei in una band,
non hai la percezione del tempo
che scorre. Mi sembra ieri
che suonavamo in posti piccolissimi
».
Sul palco avete ancora
l'energia degli esordienti.
«Intanto siamo fortunati perché suonare è la cosa che ci piace
di più».
Attenzione: frase banale.
«No, siamo fortunati davvero
perché abbiamo anche un bell'equilibrio
al nostro interno.
Per che cosa, scusi?
«Per impedire che diventi
troppo grave e irrisolvibile».
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