I pazienti "dimenticati" all'ex clinica Santa Rita: morti senza un funerale

Il dramma dell'istituto Città Studi: i pazienti muoiono in ospedale, ma nessun parente si fa vivo per organizzare il funerale. Ed è il Comune a farsi carico delle spese

I pazienti "dimenticati" all'ex clinica Santa Rita: morti senza un funerale

Muoiono in ospedale, magari dopo lunghi ricoveri. E nessuno chiede di loro, nessun parente si fa vivo per organizzare il funerale. Accade all’istituto Città Studi, l’ex clinica Santa Rita, dove in obitorio i corpi restano parcheggiati giorni e giorni. "In qualche caso anche per alcuni mesi", spiega il direttore sanitario Pasquale Ferrante. Uno dei casi più clamorosi è quello di un paziente macedone, il cui corpo è rimasto nelle celle frigorifere per ben sette mese. Tanto ci è voluto per rintracciare la famiglia del defunto. "Il consolato macedone – spiega il direttore – è a Venezia e ci abbiamo messo parecchio tempo prima di avere notizie dei parenti di quel povero uomo".

In altri casi è lo stesso ospedale che decide di sobbarcarsi le spese del funerale: poco tempo fa è capitato con un clochard, deceduto in ospedale e rimasto in obitorio per due settimane. Dopo di che la clinica Città Studi si è offerta di provvedere alle spese di trasporto e il Comune di residenza del senza tetto, proveniente dalla provincia di Pavia, ha pensato alla sepoltura e a tutto il resto. "E’ ovvio tuttavia – aggiunge Ferrante – che non possiamo sostenere le spese in tutti i casi. Finché è per una volta, non c’è nessun problema, ma altrimenti diventa difficile". Nel caso in cui la persona deceduta appartenga a una famiglia in difficoltà economiche, allora è il Comune che paga tutto: dalla bara al loculo. Ma tante volte è difficile rintracciare un qualsiasi pro zio o lontano cugino e così l’obitorio diventa un cimitero di nessuno, dove i corpi vengono dimenticati e lasciati lì, con un codice per identificarli.

Anche in pronto soccorso si fa qualche eccezione alle regole e i medici chiudono un occhio con i barboni che si piazzano nella sala d’attesa. "Spesso sono persone ben vestite e distinte – racconta il direttore – ma si capisce che non hanno una casa. Vengono in pronto soccorso perché hanno bisogno di assistenza. O semplicemente per stare al caldo e poter usare i bagni". I medici lasciano che i clochard si lavino e capita spesso che offrano qualche tè caldo o qualche merendina delle macchinette automatiche. "Attualmente il nostro pronto soccorso – racconta il direttore – è frequentato da otto persone senza fissa dimora. Di giorno stanno in giro, poi tornano, poi spariscono, poi si ripresentano. Alcuni hanno problemi di alcolismo, altri sono semplicemente i clochard di questa zona". Aiutarli davvero è difficile: non si lasciano avvicinare, non accettano vestiti né si fanno accompagnare nei dormitori pubblici.

I dottori e gli infermieri hanno adottato la strategia del "far finta di niente e lascia fare". E così non dicono nulla se vedono un clochard entrare in bagno. Magari, di soppiatto, gli fanno pure trovare un po' di sapone, senza essere invadenti, con discrezione.

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