Se bisogna parlare seriamente di classifiche di vendita bisogna essere un tantino stronzi. Vale a dire il giusto snob ed elitari e poco ruffiani, pur senza prendere posizioni facili contro il mercato, né sottometterglisi come da sempre fa anche la sinistra con la scusa del «popolare» (purché il popolare non sia di destra, altrimenti si beccherà un bel «populista!»).
Insomma, signore mie, non si capisce perché si facciano le classifiche di vendita dei libri e non, per dire, delle lavatrici, dei televisori, perfino dei vibratori sarebbe più sensato. Siccome una cosa è certa e molto poco democratica: a differenza di un elettrodomestico, un libro più va incontro al gusto del lettore, meno lo farà crescere, e ancor meno sarà importante. Se un libro dice già ciò che pensi, che lo leggi a fare? Per intrattenimento, si obietterà. Ma allora che senso avrà stilare classifiche del più banale? Non è come avere al primo posto di una classifica del Gambero Rosso il McDonald's, perché vende di più? E allora cosa studiamo a fare i grandi, a scuola? Per intenderci, tra i più venduti del 2016 c'è Harry Potter di J.K. Rowling (una sceneggiatura, scritta con Jack Thorne e John Tiffany), l'ennesimo Montalbano di Camilleri, un bestseller da treno (La ragazza del treno di Paula Hawkins), due romanzi sentimentali per casalinghe annoiate (Io prima di te di Jojo Moyes e L'amica geniale di Elena Ferrante), il solito romanzo per casalinghi appassionati di mafia di Roberto Saviano. E con ciò? Tutto bene: ognuno legga ciò che gli pare. Il problema della classifica di vendita è che spesso diventa un sistema di valori non commerciale: più vende il tal prodotto, più sarà buono, e «bestseller» suona sempre come complimento. A me, in quanto scrittore, lo chiedono sempre: «Qual è il tuo bestseller?». Perché in teoria il discorso vale per qualsiasi prodotto, più o meno, tranne per i libri, altrimenti anziché studiare Proust studieremmo il suo contemporaneo Pierre Hamp, e al posto di Flaubert ci sarebbero Auger o Ponsard. Senza più distinzioni, un secolo di critica ormai appare buttata alle ortiche, inutilizzabile: l'orizzonte di attesa, lo straniamento, Sklovskij e Genette e giù giù fino a Umberto Eco. Sostituita da piccoli e grandi clan senza arte né parte: il clan di Repubblica, quello dell'Einaudi, quello di Filippo La Porta o Alfonso Berardinelli, con in testa Nicola Lagioia, l'ultimo arrampicatore sociale di successo. Inutilizzabile la vecchia differenza tra Cultura Alta, Bassa e Media, quest'ultima definita da Dwight MacDonald con una parola: Midcult. Il Midcult rappresenta la categoria più infima del prodotto di massa: per intenderci è Giovanni Boldini contro Monet o Van Gogh o Braque, questi ultimi senza alcuna possibilità di finire in qualche classifica di vendita. Tra i succitati, la Rowling sarebbe Mass Cult, Camilleri, Saviano e la Ferrante indubbiamente Midcult, ossia il prodotto medio, Kitsch, spacciato per letteratura. E non che il mercato di massa non esistesse già 50 o 100 anni fa. Esisteva, con una differenza: esisteva anche la critica. Ossia un'élite capace di distinguere l'alto dal basso, l'avanguardia dalla retroguardia, un Cabernet Sauvignon di Inglenook dal Tavernello comprato dal cinese sotto casa. Per cui successo di pubblico da una parte, oppure successo di critica dall'altra, raramente entrambi. Andava pur bene puntare tutto su Pitigrilli, purché ci si salvasse la faccia con Gadda, altrimenti non si era veri editori ma solo biechi commercianti, venditori di insaccati rilegati. Certo, la critica non era infallibile: André Gide si sbagliò su Proust, Virginia Woolf su James Joyce, ma fecero in tempo a ricredersi, e se non altro erano Gide e la Woolf.
In ogni caso, per carità, niente di nuovo, corsi e ricorsi, e la questione è perfettamente centrata in Fratelli d'Italia del divino Alberto Arbasino (romanzo tra i più importanti della letteratura italiana, non da classifica) già quarant'anni fa: «L'industria del Midcult non è davvero un fenomeno nuovo, questi romanzetti per la spiaggia circolavano già tali e quali anche negli anni Trenta, soltanto non si pretendevano Alta Cultura presentandosi con tanto sussiego e sofferente Kitsch! Ci si è passati parecchie volte, nei cicli e ricicli fra produzione e consumo che vendono e comprano come esperienze spirituali privilegiate l'avviamento commerciale d'una formula: il falso problema, la falsa audacia, la falsa poesia, il falso chic». Inoltre si consideri che la classifica dei libri non è un dato di vendita come un altro, le classifiche sono indotte dagli editori, i quali cercano «libri da classifica». I quali, di per sé, non esistono (se esistesse una ricetta sarebbe facile), ma esiste un gioco perverso alla banalizzazione: questo vende, questo non vende. È come se alle Olimpiadi vincesse chi fa il salto più basso, chi corre più piano, chi lancia un giavellotto più vicino. Questo perché la gente è scema? No, sono scemi gli editori e il sistema culturale, quello italiano più di altri. Sebbene anche il pubblico ci metta del suo, altrimenti tutto questo sarebbe un discorso marxista sulla necessità di un intellettuale organico messo su a elevare le masse dalla dabbenaggine. Sempre Arbasino mette in evidenza un paradosso: «Il pubblico dei libri è il solo che cerca unicamente i prodotti più venduti alla massa, non come quello dei ristoranti e delle boutiques che esige articoli chic e di élite.
E dunque le cabale degli editori e dei premi devono pur tenerlo in vita, il povero morto: sotto gli ombrelloni, le lettrici di massa aspettano il romanzo più venduto alle folle, non certo il costume da bagno uguale alle altre! E hanno già buttato via la produzione dell'anno scorso!».
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