I «ricercatori» alla ricerca dell’aria fritta

Caro Dott. Granzotto, non ho mai frequentato l’Università, anche se avrei voluto farlo. Ma negli anni Cinquanta, alla morte di mio padre, la mia famiglia non era nelle condizioni economiche per farmi continuare gli studi e mi sono così fermato al ginnasio, iniziando a lavorare, anche se minorenne. Ma all’epoca non si badava a queste cose. Non conosco quindi l’Università e, in particolare, non so chi siano e che cosa facciano i «ricercatori», in questi giorni agli onori della cronaca. Vocabolario alla mano, dovrebbero essere «persone che cercano». Ma le domande che rivolgo a lei, chiedendole di illuminarmi, sono le seguenti: che cosa cercano? E chi dà loro le indicazioni su cosa cercare? E passano l’intera loro vita a cercare? Posso capire l’attività di ricerca nel campo tecnologico, ma cosa ricerca una persona, per esempio, nel campo delle lettere, per tutta la vita? Le chiedo di scusare la mia profonda ignoranza. La saluto cordialmente e le auguro buon anno.
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Ora non più, ma prima della riforma Gelmini, sì, caro Delfino. Un ricercatore poteva ricercare per tutta la sua vita professionale. Ricercare cosa? Ciò che voleva o, nella figura di quello che nel linguaggio editoriale si definisce un «negro», ciò che tornava utile al professore suo superiore o per meglio dire suo sponsor, nell’assemblare il solito dotto saggio destinato alla pubblicazione. Salvo benemerite eccezioni, avvenne poi che i ricercatori praticamente cessarono di ricercare per dedicarsi a altro. Fu quando le Università presero a proliferare di numero e in corsi di laurea (95 atenei, 320 sedi distaccate; 170mila materie d’insegnamento; fino a 2mila 244 corsi di laurea). Per coprire, a basso costo, i buchi che l’alluvione di cattedre aveva provocato, i ricercatori furono così chiamati a rimpiazzare i professori. Salendo in cattedra, tenendo le lezioni e, colmo dei colmi, facendo da relatori di tesi di laurea e dunque, al pari dei docenti, esaminando, promuovendo e bocciando. Per meglio farle capire in che guaio s’è cacciata l’istruzione superiore, sappia, caro Delfino, che oggi i ricercatori rappresentano il 40 per cento del corpo docente universitario.
Si era venuto a creare, dunque, un italianissimo corto circuito: il primo a dovere aggiornarsi e dunque dedicarsi alla ricerca sarebbe, manco a dirlo, il cattedratico. Troppa fatica? Non si sa, comunque per liberarlo dall’incomodo fu inventata la figura del ricercatore «di ruolo», chiamato a supplire le mancanze dei docenti. Sebbene fresco di studi, il ricercatore fu poi utilizzato per tappare i buchi del corpo docente (causati anche dalle lunghe latitanze dei medesimi? Ricordo d’aver letto che Giuliano Soria, professore di lingua e letteratura spagnola alla Sapienza di Roma, si faceva vedere in facoltà un paio di volte l’anno. E per brevi visite). Un andazzo a dir poco sconsiderato e che ha largamente contribuito a far precipitare i nostri atenei in fondo, ma proprio in fondo, alle classifiche di merito e di risultati ottenuti. E ora, premettendo che non è nelle mie intenzioni fare dell’erba dei ricercatori un sol fascio, entro nel merito della sua domanda, caro Delfino: che cosa ricercano i restanti ricercatori in servizio attivo? Bé, per esempio un gruppo di ricercatori dell’Università di Trento (402ª posizione nelle graduatorie) ha voluto «statisticizzare» le abitudini private delle coppie. Esaminando in particolare il come e il quando lui o lei emettano quei rumorosi gas intestinali che non stiamo qui a precisare.

Questi i risultati: l’89 per cento degli uomini italiani li emette, fragorosamente, in presenza della propria partner, mentre solo il 12,7 per cento delle donne fa altrettanto. Un dato interessante, che certamente contribuirà alla crescita culturale della nazione e a fronteggiare con baldanza le sfide del terzo millennio.
Paolo Granzotto

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