Gli idoli degli stadi non sono intoccabili

Sì, è vero, il ministro Roberto Calderoli forse pecca di demagogia quando chiede al calcio di ridurre gli ingaggi come sacrificio simbolico in un periodo di crisi economica. Sì, è vero, il mercato ha le sue regole, e le società (Inter inclusa) stanno sul mercato come le altre aziende: investono il proprio denaro come meglio credono, e nel caso qualcosa vada storto ne pagano le conseguenze. Sì, è vero, i premi della nazionale derivano dalla risorse messe a disposizione dalla Fifa e non comportano alcun aggravio sul bilancio dello Stato. Sì, è vero, i giocatori che fanno la bella vita e hanno un estratto conto lungo un chilometro sono una sparuta minoranza, nelle serie inferiori (inferiori, per carità, solo per modo dire) non si nuota nell’oro. Sì, è vero, sia i campioni sia i brocchi pagano regolarmente le tasse, ci mancherebbe. Sì, è vero, questi proclami saltano fuori sempre prima delle grandi manifestazioni, quando l’attenzione verso il tema è massima. Sì, è vero, se proprio si deve tagliare e fare un bel risparmio, prima della Serie A, la falce potrebbe e dovrebbe cadere su settori che assicurano una messe ben più larga rispetto ai pallonari: a partire dalla politica, con conseguente riduzione dei parlamentari, delle Province, delle comunità montane in riva al mare, di certi privilegi assimilabili ai premi partita ma elargiti anche in caso di sconfitta. Per non dire di enti utili solo a dispensare stipendi e a interi comparti dello Stato trasformati in ammortizzatori sociali.
Tutto vero. Però impressiona la levata di scudi generale contro Calderoli, decisamente sproporzionata rispetto alla provocazione. Perché tante unanimi reazioni seccate se non proprio indignate? Il mondo del calcio è diventato così importante e serioso da ergersi al di sopra di qualsiasi possibilità di critica? Pare di sì. Eppure c’è da scommettere che molti la pensino come il ministro, il quale ha dato voce a una sensazione di sconcerto molto più diffusa di quanto si voglia ammettere.
Mi spiego. Senz’altro c’è qualcuno stanco dell’andazzo preso dallo sport tuttora più appassionante del mondo. Il motivo? Non credo sia l’invidia che si prova davanti a giovani superpagati, adorati dalle masse, ascesi nello star system al ruolo un tempo era riservato alle rockstar, sfuggiti ai problemi di tutti i giorni grazie alla pelota. E forse non c’entra neppure l’insopportabile moralismo di chi considera i dobloni alla stregua di sterco del demonio, per cui i ricchi sono sempre da criminalizzare.
Tutto sommato, la storia neanche troppo recente dei campionati di serie A, B e C (ora Prima divisione) non è particolarmente gloriosa né edificante. Sono molte le società che hanno fatto il passo più lungo della gamba, che hanno speso più di quanto avessero incassato, che hanno dilapidato montagne di soldi (pur non avendone) in ingaggi talvolta destinati a mezzi talenti, che hanno potuto comodamente spalmare i debiti, cosa forse non concessa con tanta generosità in altri ambiti. Insomma, il calcio non è un modello di impeccabile gestione aziendale e, lo dico da tifoso, talvolta il «grande calcio» visto dal sottoscala del «piccolo calcio» di provincia non pare un universo in cui le regole sono uguali per tutti.


E allora, dopo aver messo i puntini sulle «i» e rimbrottato il ministro, sarebbe salutare un piccolo esame di coscienza: un leggero, almeno simbolico, ridimensionamento del carrozzone sarebbe un fatto poi così deleterio? La richiesta di devolvere in beneficenza eventuali premi in caso di vittoria sudafricana (incrociamo le dita) è un’offesa imperdonabile? Il campionato era forse brutto quando gli assegni avevano qualche zero in meno? Non mi sembra proprio: forse una semplificatina, con qualche taglio, potrebbe rivelarsi addirittura salutare.

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