Lestetica del terrore, ovvero lagghiacciante maturità raggiunta dal terrorismo nella manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa, è allordine del giorno del vivere quotidiano. Ne ha fatta di strada, londa del terrore, da quando, alla fine degli anni Sessanta, Carlos Marighella compilava quel suo manuale di guerriglia diventato famoso in tutto il mondo per le raccomandazioni che dispensava nella lotta armata contro «la vergognosa dittatura brasiliana e le sue atrocità». Marighella discettava anche sul termine terrorismo, sostenendo che non aveva più «il significato negativo che gli veniva attribuito, ha acquistato un altro aspetto e un altro colore. Non divide, non discredita, al contrario rappresenta un elemento di attrazione».
Dal ciclostile, che Marighella suggeriva di impiegare per divulgare le azioni contro la dittatura, si è passati oggi a impiegare ben più efficaci risorse, quali la radio, i supporti digitali, la televisione, come dimostra luso sapiente di tutta la strumentazione mediatica da parte dei moderni terroristi, anche se luso del termine continua a rimanere di dubbia definizione. Comunemente si è soliti chiamare così chi impiega la violenza, le armi e appunto il terrore per contrastare il nemico, ma più di una volta coloro che hanno raggiunto il potere dopo il terrore sono diventati acclamati statisti e governanti. Era stato un terrorista Yasser Arafat, nonostante il Premio Nobel? Lo era stato Menachem Begin, che per diventare primo ministro dello Stato di Israele aveva guidato contro gli inglesi la lotta armata più cruenta? Era terrorista la bomba americana su Hiroshima? E ancora: erano terroristi Che Guevara, Fidel Castro, Nelson Mandela, per fare solo alcuni nomi? Il quesito non è accademico, se è vero che scrutando le loro biografie nelle enciclopedie il termine terrorista compare allinizio, ma appena vittoriosi sul nemico laggettivo muta in liberatori.
Resta il fatto che lescalation mediatica percorsa dal terrore è davvero impressionante. Lo dimostra linquietante saggio di Christian Uva, nel tracciare i fondamentali dellestetica della violenza. In effetti, larmamentario mediatico non cessa di ingigantire e atterrire. È questo lobiettivo di chi pratica il terrore: stupire, impaurire, seminare annichilimento e angoscia, al fine di evidenziare agli occhi dellimmaginario collettivo la testimonianza della propria forza.
Quando negli anni Settanta insegnavo in una Università di neri americani, il Federal City College di Washington D.C., entrai in contatto con il movimento dei Black Panther e per la prima volta mi resi conto dellimportanza delluso mediatico nella lotta politica. In seguito a quella esperienza pubblicai un manuale di controinformazione (allora si usava questo termine), Senza chiedere permesso, nella cui copertina primeggiavano alcuni giovani che imbracciavano la telecamera anziché il mitra, ipotizzando la sostituzione delle armi con i nuovi mezzi di comunicazione. Non è andata così. Da allora, armi sempre più micidiali e media sempre più compiacenti viaggiano sullo stesso binario. Quanto più distruttive sono le prime, tanto più pervasive diventano le seconde. Si direbbe anzi che nessuna azione cruenta avrebbe senso se non fosse divulgata e ingigantita dai media.
Poco tempo fa il Consiglio dEuropa suggerì di adottare un «codice di condotta», per informare lopinione pubblica senza favorire limpatto mediatico cercato dai terroristi, ma nessuno lo ha praticato, né ha creduto alla sua utilità. È vero, anzi, il contrario, ovvero che i media sin dal tempo della guerra in Vietnam fanno a gara per rappresentare le azioni più raccapriccianti, spesso senza rendersi conto di fornire il miglior supporto a chi quelle azioni ha prodotto. Le accuse si sprecano. La verità è che lantidoto non è stato trovato.
* regista e sceneggiatore
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