Impegno bipartisan: a Bruxelles si cominci a parlare l’italiano

Federico Guiglia

A Francesco Rutelli, che in un recente faccia a faccia televisivo snocciolava dei concetti indicandoli con parole in inglese maccheronico, Pierferdinando Casini ha suggerito di provare a dire le stesse cose in lingua italiana. E quello, spiritoso, gli ha risposto «Welfare State», per sottolineare che la brutta ma diffusa abitudine tutta politica di ricorrere ad espressioni straniere in luogo delle esistenti e spesso bellissime offerte dalla lingua nazionale, riguarda destra e sinistra, maggioranza e opposizione, prima e seconda Repubblica. Come se la mancanza di fantasia, non di rado coniugata al provincialismo, avesse contagiato l'intera classe dirigente del Paese, a prescindere dalle legislature e dai governi.
Ma gli schieramenti hanno finalmente l'occasione per guarire dal vizio di ritenere che «question time» sia intrinsecamente altra cosa rispetto, per esempio e per restare alla Camera dei deputati presieduta proprio da Casini, a «tempo d'interpellanza» (o tante diverse possibilità di ritradurre la banalità nell'idioma che si parla o si dovrebbe parlare nel Parlamento della Repubblica «italiana»).
L’occasione per voltare pagina riguarda l’Unione europea, luogo del futuro che più futuro non si può: non è dunque «passatista» la sollecitazione di valorizzare la nostra lingua fuori dai confini dello Stato, tutto il contrario. Succede, infatti, che nonostante alcune falle più o meno tappate (vedi il rischio, pare rientrato, dell'abgrogazione del servizio di traduzione in italiano per tutte le conferenze-stampa fuorché una alla settimana) e malgrado il ricorso formale che l'Italia ha fatto alla Corte di giustizia delle Comunità europee per violazione dei trattati sull'uso delle lingue a proposito di un pubblico concorso che ignorava l'italiano, insomma alla faccia di qualche passo politico in avanti, la grande questione della comunicazione ci vede ancora e assurdamente soccombenti. Accade che nella Commissione europea, e non solo, le lingue effettive di lavoro e di procedura siano il francese, l'inglese, il tedesco ma non anche l'italiano. È una discriminazione di fatto e di principio, se si pensa che la nostra lingua nazionale non soltanto sia la lingua di un Paese fondatore dell'istituzione europea e fra i primi tre contribuenti della stessa, ma anche che per numero di parlanti nell'Unione essa sia alla pari del francese e dell'inglese come madre-lingua. Invece, nel concreto, l'italiano è relegato allo stesso livello del maltese, e lo diciamo con l'ovvio e il massimo rispetto che ogni lingua suscita. Una sottovalutazione inaccettabile, se si pensa che la lingua tedesca, pur non avendo la riconosciuta e tradizionale ufficialità dell'inglese e del francese, sia diventata o stia diventando lingua di lavoro.
Ora, non staremo a ricordare quanto possa pesare, nel mondo, nella cultura e nella cultura della comunicazione, una lingua il cui primo testo ufficiale scritto risale al 960 d.C: nel 2006 l'italiano «compie» 1046 anni di vita documentata, e scusate se è poco. Né metteremo in evidenza la formale petizione che quanti s'interessano a questo tema così decisivo a Bruxelles, stiano facendo girare proprio in queste ore per raccogliere firme italiane ed europee volte al ripristino della lingua italiana come lingua d'uso nei lavori della Commissione. Chiediamo però che, attraverso l'ironico botta e risposta linguistico fra Casini e Rutelli, il problema del serio rilancio della lingua italiana diventi un «interesse nazionale» degno di figurare nei programmi delle coalizioni e nell'azione dei governi. I nostri commissari europei e funzionari europei e ministri italiani viaggianti e presenti in Europa comincino a fare come i tedeschi per la loro lingua: alzarsi dalla poltrona e andarsene finché l'italiano non avrà il riconoscimento «ufficiale» che merita.
f.

guiglia@tiscali.it

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