Un’indagine sulla morte, il tabù del nostro tempo

Abbandonata la speranza religiosa, fallita l’illusione positivista, l’uomo moderno risolve il problema fingendo che non esista

Un’indagine sulla morte, il tabù del nostro tempo

Se vale il principio secondo il quale nessuno può fare a meno di acquistare un libro che lo riguarda, Stefano Lorenzetto venderà sei miliardi e seicento milioni di copie della sua nuova opera. Sei miliardi e seicento milioni: tante quanti sono gli abitanti della Terra. I quali, nessuno escluso, dovranno prima o poi fare i conti con quelle «cose ultime» di cui Lorenzetto si è occupato.
La morte, la «cosa ultima» per eccellenza, è davvero l’unica certezza nel nostro futuro. Nella sola giornata di oggi - ci dicono le statistiche - sessantamila nostri simili si congederanno da questo mondo. Un mondo nel quale noi vivi - voglio dire noi provvisoriamente vivi - non rappresentiamo che un’esigua minoranza. Siamo più di sei miliardi, d’accordo: ma, solo nei quattromila anni della storia che raccontiamo sui libri, sono almeno cento miliardi i «colleghi» che ci hanno preceduti.
Eppure non c’è evento più rimosso di questo. Strano: viviamo un tempo in cui imperversano i futurologi d’ogni specie, ma dell’unico appuntamento certo è proibito parlare. Superato, e da un pezzo, quello del sesso, il nuovo tabù è la morte: tra gente perbene non se ne parla. Per non pensarci ci riempiamo di cose da fare. Addirittura pianifichiamo imprese di lungo termine anche quando i nostri capelli si sono imbiancati da un pezzo. Ma l’agenda è sempre meno ricca di pagine. Perché, nonostante i progressi della scienza, poco o nulla è cambiato dai tempi in cui il salmista scriveva: «Gli anni della nostra vita sono settanta/ ottanta per i più robusti.../ passano presto e noi ci dileguiamo». Settanta anni: venticinquemila giorni o poco più. Fa specie veder definiti «giovani», sui giornali, i politici cinquantenni: non restano loro che 7.300 giorni, 10.950 se saranno tra i più robusti.
«Ci è capitata una curiosa avventura: abbiamo dimenticato che si deve morire», ha scritto anni fa uno storico francese, Pierre Chaunu. È una delle conseguenze della modernità. Abbandonata la speranza religiosa, sperimentato il fallimento dell’utopia positivista di sconfiggere quell’odiosa Signora, l’uomo non ha trovato altra soluzione al problema che far finta che il problema non esista. Discettiamo ogni giorno di politica, di economia, di ecologia, di sociologia: tutte cose importanti, ma che ci forniscono tutt’al più risposte sulle cose penultime, non sulle ultime. Le «cose ultime» che un tempo la Chiesa chiamava «i Novissimi»: morte, giudizio, inferno e paradiso. Questioni ridicolizzate dai sapienti della nostra epoca, che sostengono di parlare in nome della Ragione. Ma su simili temi l’unico prodotto di questa «ragione» è stato il riempirsi di lavoro per non ragionare: «Meglio oprando obliar senza indagarlo/ questo enorme mister dell’universo», suggeriva il Carducci.
Lorenzetto ha avuto il grande merito di «oprar indagando». Ha messo il suo talento di intervistatore al servizio di quell’unica domanda davvero decisiva: c’è qualcosa al di là di quella porta misteriosa? Il Tutto o il Nulla? Ha interrogato uomini e donne che con il mistero della morte - e della vita: è la stessa cosa - hanno scelto di mescolarsi ogni giorno, oppure hanno dovuto fare i conti prima di quanto avessero desiderato.
Tra queste persone che Lorenzetto ha intervistato ce n’è una a me cara, un’amica che ho frequentato nei miei anni comaschi. È una signora di 105 anni, dalle ancora formidabili energie fisiche e intellettuali. Si chiama Carla Porta Musa. Un pomeriggio di un paio di anni fa, a casa sua, mi disse: «Io non ho paura della morte. Come potrei? È la cosa più naturale che ci sia». Eh no cara Carla: naturale è la vita, non la morte. La morte, questa bastarda, è contro-natura, infatti noi non l’accettiamo mai. Naturale è la speranza di infinito, la ricerca di un senso, insomma il desiderio di vita. Quello che - come mi riferisce un amico di Como - ha portato Carla Porta Musa, ieri mattina alle 8, ad attendere l’apertura di una libreria per essere la prima acquirente del libro di Lorenzetto.
La vita: è la vita, e non la morte, a urlare dentro ciascuno di noi. Nel libro di Lorenzetto ci sono altri due miei amici comaschi, Erasmo e Innocente Figini: due fratelli che hanno lasciato che la loro esistenza venisse sconvolta da qualcosa di più grande. Hanno aperto la loro casa a ottanta «figli»: trenta vivono lì con loro, cinquanta sono in affido diurno. Chi glielo ha fatto fare, se non la certezza che la vita non finirà sotto un metro di terra?
I Figini hanno fede, sono cristiani, credono in quel solo Uomo che - dicono - è tornato vivo dal regno dei morti.

Lorenzetto questa fede dice di non averla, ma di cercarla. Voglio sperare - per lui e per noi tutti - che siano vere le parole che Blaise Pascal dice di avere udito da Cristo stesso: «Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato».

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