Lo siamo un po tutti, noi giornalisti della carta stampata, anche i più seri. Lo siamo o lo siamo stati perché a volte raccontavamo avvenimenti per sentito dire, o tramite testimonianze incerte, quando non campate in aria. Ci capitava anche, lo ammetto, di infiorettare gli articoli con particolari verosimili, ma di dubbia autenticità. Ho conosciuto un solo collega che rifiutava questi artifici del mestiere: si chiamava Egisto Corradi, e spesso deludeva o faceva infuriare i direttori per lostinazione con cui si atteneva a ciò di cui era sicuro al cento per cento.
Il caso Montanelli è tuttavia diverso. Indro fu, fin da giovane, un personaggio geniale con civetterie da divo. Inoltre era un grande viaggiatore e grande narratore, unaccoppiata che genera di solito grandi bugiardi (ad essi è dedicata proprio in questi giorni una mostra). I particolari che aggiungeva alla sua autobiografia erano - come quelli che aggiungeva ai suoi «Incontri» réportages - interessanti, spassosi, innocenti, perfino indispensabili. Trasmettevano al lettore una verità più vera di quelle prolissamente messe insieme dai pedanti. Nulla che potesse offuscare sul serio la figura e il ricordo del re del giornalismo. Un re che, al di là di ogni contestazione, i suoi drammi e le sue tragedie li ha avuti davvero, sempre comportandosi da hidalgo, per dirlo alla spagnola.
Questo frugare nelle minuzie di Montanelli posso anche capirlo se ha un sottofondo ironico da divertissement tra amici.
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