Inno d’amore per una figlia mai perduta

Non è la prima volta che Fausto Gianfranceschi affronta in un libro il tema della perdita di un figlio. Accadde trent’anni fa con Svelare la morte (Rusconi editore), premio Selezione Estense, accade ora con Federica (Pagine editore, 112 pagine 11 euro), il che significa, in una dimensione privata, un doppio, indicibile strazio, e dal punto di vista letterario una duplice sfida. Il Gianfranceschi di allora era un uomo e uno scrittore nel pieno della maturità fisica e intellettuale, in grado se non di comprendere e/o accettare il lutto, di superarlo: una sorta di prova, di iniziazione quasi al dolore e insieme di affermazione dei diritti della vita che impongono il ricordo e però l’andare avanti, il pianto ma non la sua esibizione o la propria commiserazione. Il Gianfranceschi di adesso è una persona provata dalle malattie, avanti negli anni, distaccata dal clima culturale imperante di cui probabilmente non gli piace nulla e poco gli interessa, e il dover bere di nuovo quel calice gli provoca un senso di orrore. Lo fa, e questo libro ne è la dimostrazione, ma questa volta a spingerlo è soprattutto un senso del dovere. Ci costruiamo nel tempo e con il tempo lo stile esistenziale che più ci somiglia e a cui più vorremmo somigliare. È la nostra bandiera, ma anche la nostra prigione.
Costruito con un andamento cronologico, Federica affianca al racconto di ciò che accade (la malattia improvvisa, fulminea e inaspettata, le tenui speranze, l’agonia, la scomparsa, le esequie), il ricordo. Sono apparentemente le pagine più lievi, per quella funzione consolatoria che attiene alla memoria, ma in realtà sono le più struggenti, perché intinte di un vitalismo, di una passione per la vita di cui ora la morte sembra irridere ogni aspetto. Intellettuale non da biblioteca, sportivo, di bell’aspetto, amante del rischio per congenita imprudenza e indolenza, il padre ha trasmesso alla figlia questo modo di essere e di fare, la vela e i cavalli, la natura, la musica, e Federica bambina, Federica ragazza, Federica donna è stata questa cosa qui, una sorta di ritratto al femminile, nel gioco dei ruoli che si inseguono e si intrecciano, dei gesti che si ripetono, dei sorrisi che rimandano una mutua comprensione. Persino nelle testardaggini, nelle impuntature e nei difetti, ovvero nella volontà di mettersi alla prova, di trovare una propria strada.
Cattolico, credente, il padre cerca di trovare nella religione il senso di ciò che gli sfugge: perché lei, perché così presto, perché in questo modo... Rilegge nella Bibbia il Libro di Giobbe e ne resta atterrito, il «tutto è vanità» dell’Ecclesiaste non lo convince e, in una dimensione laica e stoica, nemmeno Seneca è in grado di lenire una pena per cui non c’è tregua né risposta. Immagini sacre, preghiere, disegnano i contorni di una fede che non vacilla, ma non per questo si rassegna. Credere non esclude una quieta disperazione.
In un centinaio di pagine, con brevi, pudichi accenni, Gianfranceschi ricostruisce anche la storia familiare di un’Italia minoritaria, personale ma per molti versi collettiva, quell’Italia che ha sempre visto nei figli una benedizione e non un peso, che crede nel rapporto fra le generazioni, che non isola i vecchi dai giovani, che fa bene il proprio lavoro e non baratta un’idea per una carriera, colta, ma priva di feticismi o superbie intellettuali, innamorata del proprio Paese senza preoccuparsi quanto e se questo amore verrà ricambiato.
Si esce dalla lettura di Federica devastati eppure pacificati: al vecchio, esausto padre e a sua moglie, cui la pratica medica aggiunge il peso insopportabile di chi già sa che non c’è speranza, non viene risparmiato nulla: la donazione degli organi della figlia, dove solo la generosità d’animo di chi coscientemente avrebbe comunque donato, permette di superare l’orrore di quella che è pur sempre una macellazione, la stupidità della burocrazia, che per un proprio errore vorrebbe negare la sepoltura nella tomba di famiglia... Eppure, e ha ragione Gennaro Malgieri nella bella post-fazione al libro, è sempre e comunque la «tenerezza paterna» a elevarsi su tutto e un’idea della vita come amore e mai come indifferenza per ciò che si è, per ciò che si ha. «Morte, dov’è la tua vittoria?».


«Breve come un grido», con una scrittura intinta «nella tempesta e nel sangue», Federica è il ritratto di una persona amata e l’autoritratto di chi così tanto l’amò. È il pianto di un padre fatto con le lacrime dello scrittore. Nell’abbracciare silenziosamente il primo, rimane l’ammirata invidia per il secondo.

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