Roma - Uno spettro si aggira per lo Stivale, da Mirafiori a Pomigliano, da Melfi a Termini Imerese. Un incubo per i sonni del sindacato e della sinistra italiana. È lo spettro del «marchionismo», segnale d’allarme che rintocca come una campana, più che come una sirena di fabbrica. Nell’era della comunicazione, il «marchionismo» s’impersona in un simbolo altrettanto controverso e spiazzante, quello di un manager che ha buttato alle ortiche grisaglie e orologi sul polsino per imbracciare maglione, sciarpone e persino (talvolta) barbone grigio come autentiche armi di distruzione di massa. La massa delle certezze assodate e del quieto vivere. All’italiana.
Sergio Marchionne, numero uno di Fiat Auto e Crysler, è anche il nuovo pericolo pubblico numero uno della sinistra italiana. In questo senso prende il posto lasciato libero da Silvio Berlusconi, e sarà interessante capirne il perché. «Molti nemici molto onore», fu il motto dell’orgoglio mussoliniano. Ma se i nemici sono pressappoco gli stessi, sarà facile scoprire solide uguaglianze tra gli oggetti di tanta «premura». Tra i destinatari di un rinnovato odio di classe.
Ma il «caso Marchionne» deve per forza di cose partire dalla sua peculiarità, dall’esistenza di un «Marchionne uno», coccolato e vezzeggiato dalla medesima sinistra negli anni che vanno dal suo arrivo al volante della Fiat, 2004, fino più o meno al 2009. Un lustro di autentica luna di miele, durante il quale il Nostro - calatosi a capofitto nel salvataggio di un’industria «tecnicamente fallita» - riuscì a meritarsi una serie di autentici privilegi (che mancarono, in effetti, al «Berlusconi ante-politica»).
Fausto Bertinotti fu tra i più entusiasti nel tracciare la direzione di marcia: «Dobbiamo puntare ai borghesi buoni. Marchionne parla della risposta ai problemi dell’impresa, non scaricando sui lavoratori e sul sindacato, ma assumendola su di sé». Piero Fassino lo salutò come «vero socialdemocratico», il sindaco torinese, Chiamparino, lo elesse a compagno di scopone scientifico, Prodi lo definì «un grande», D’Alema e Veltroni nel suo nome trovarono inopinati momenti di unità.
Quanta fretta, quanta distanza con le parole che da mesi risuonano ogni qualvolta l’Amerikano (scritto con il redivivo «cappa») si produce in interviste e, soprattutto, fatti. Decisioni che scardinano, a giudizio unanime, l’intero modello di relazione industriale. Lo stesso Bersani, uno da frasi fatte che arrivano a cose fatte, ora dice di essere «preoccupato alla grande». L’ex cultore Fassino, adesso sindaco torinese, si augura che quelle dell’Uomo Fiat «siano solo suggestioni». E non esita a pretendere, con quella riconosciuta vis graffiante che sfoggia quando parla di casa Fiat, «che il gruppo dia un quadro di certezze: lo chiedo tutte le volte che parlo con Marchionne». Ma lui, evidentemente, non se ne avvede e non risponde. «La modernità di Marchionne puzza di Medioevo», chiarisce Nichi Vendola, in conformità con il giudizio del responsabile economico del Pd, Stefano Fassina. «Marchionne calpesta la dignità dei lavoratori, sta scrivendo le pagine più buie del mondo del lavoro nel nostro Paese», tuona il comunista Diliberto. Antonio Di Pietro sostiene che usa «i lavoratori come capro espiatorio», il socialista Bobo Craxi incita allo sciopero: «È un despota, fa ricatti da neocapitalismo primitivo».
Questo per non dire ciò che pensano e dicono, di Lui, le sue controparti per così dire «naturali», Susanna Camusso e Maurizio Landini, capi di Cgil e Fiom. Cose non sempre riferibili. Insofferente della vetusta macchina burocratico-politico-clientelare dell’industria italiana, il personaggio penetra nella burrosa sinistra italiana con sottile voluttà (in un’intervista al canale Bloomberg ebbe a crogiolarsi di quanto fosse «un piacere solido lavorare in un mercato flessibile come gli Usa»). Di sicuro ama far discutere, utilizzando come gatto con topini una comunicazione moderna, che autorevoli commentatori definiscono «a carciofo». Significa «mettere sul piatto una foglia per volta, così si discute della parte, non del tutto».
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