Ammutinamento Pd: 14 senatori si ribellano al blitz contro Mineo

Autosospensione di massa a Palazzo Madama in solidarietà al collega rimosso. Renzi: "Non lascio il Paese in mano a lui"

Ammutinamento Pd: 14 senatori si ribellano al blitz contro Mineo

La pietruzza si fa valanga. Valanga che incombe, minacciosa, quasi volesse travolgere il percorso stringato delle riforme e persino l'imperatore di ritorno dalla Cina. Il Partito democratico ricorre alle maniere forti, tradisce il proprio nome, straccia l'articolo 2, comma 5, del proprio regolamento a Palazzo Madama ed epura i due commissari riottosi all'abolizione del Senato, forse pure antipatici alla ministro Boschi: Corradino Mineo e Vannino Chiti (in realtà estromesso tempo fa grazie a un cavillo introdotto dal capogruppo Zanda). Di rimando - in un gruppo i cui connotati sembrano irriconoscibili rispetto a pochi mesi fa (tanti sono i balzati sul cargo del vincitore) - quattordici senatori pidini prendono cappello e si pongono sull'uscio, «autosospendendosi». Una squadra di calcio con riserve; anche se nessuno di essi, per il momento, dichiara l'intenzione di cambiar maglia e uscire da quella porta. Certo, non si può negare che un eventuale gruppo capace di tenere in scacco la maggioranza sia una tentazione forte assai, visto che potrebbe contare anche su Sel, in crisi greca, e sugli epurati da Grillo (ugual modo di concepire la politica). I civatiani, dicono dal quartier generale renziano, da tempo si muovono su questo terreno. Ma si sa anche quanto possa esser scivoloso.
Nel frattempo, in giornate calde come quella di ieri, volano stracci, in questo che non è più il Pd, bensì il partito «Doporenzi». Protesi antropologica di decisioni che arrivano dall'alto, e non ammettono defezioni e distinguo. La ministro Boschi ha avuto consegne ben precise e annuncia che si andrà avanti sulle riforme, «contro il potere di veto di questi senatori, perché è il popolo che ce lo chiede». Il sanculotto renziano, Lorenzo Lotti, rafforza il concetto per i duri di comprendonio: «Quattordici senatori non mettono in discussione il voto di 12 milioni di italiani». Addirittura. «Assalti alla baionetta», li definirà Massimo Mucchetti, uno della fronda (gli altri saranno, nel corso della giornata dei tumulti, oltre a Mineo e Chiti: Casson, Corsini, D'Adda, Dirindin, Gatti, Giacobbe, Lo Giudice, Micheloni, Ricchiuti, Tocci e Turano). E il premier, rientrando dalla Cina, non metterà affatto acqua sul fuoco: «Il partito non è un taxi, Mineo è stupefacente, non può solo farsi eleggere... Non lascio il Paese a Mineo», la spara grossa, facendo dell'articolo 67 della Costituzione - cioè il divieto di vincolo di mandato - uno dei tappetini rossi da calpestare nel suo gran dimenarsi. «Renzi rinverdisce la tradizione bulgara», dice Pippo Civati, capo della minoranza mugugnona e inconcludente che pure resta alla corte del re. Stavolta il segno è stato passato, insiste il buon Pippo, che torna a provare la faccia feroce: «Ora valuteremo il da farsi, qualcuno potrebbe lasciare il gruppo a lungo...». Non certo il prudente Chiti, lunga onesta militanza, che difatti subito si preoccupa: «Mi caccino loro, se vogliono. Io qui sto bene, anche se non può essere un partito plebiscitario-autoritario». E neppure Mineo che, incurante degli insulti ricevuti dai colleghi (da «Bambino capriccioso» fino a «Mastella con la sua zolla», sic!), si definisce «più renziano della Boschi» e scarica sul ministro ogni colpa: «È lei a bloccare le riforme per la sua vanità». Mineo si difende dalle «accuse assurde: mai posto veti», giura.

Avverte velenoso: «Renzi sbaglia, sarà pugnalato dai suoi colonnelli». Nessuno si fida più di nessuno, il chiarimento con Zanda arriverà lunedì pomeriggio. Sarà un weekend di lunghi coltelli (resuscita per qualche ora persino Fassina-Chi). Ma dal cargo che vince non si scende.

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