Sanremo 2014

L'ultimo show della prima repubblica tv

La liturgia si è inceppata. Il rito è logorato e consunto. È finita un'epoca, va ammesso. Non è solo il crollo degli ascolti della seconda serata del Festival a certificarlo

La liturgia si è inceppata. Il rito è logorato e consunto. È finita un'epoca, va ammesso. Non è solo il crollo degli ascolti della seconda serata del Festival a certificarlo. C'è qualcos'altro. Molto altro. Fabio Fazio, il direttore di Raiuno Giancarlo Leone e gli altri dirigenti della tv pubblica possono replicare nel modo che sappiamo: su Canale 5 c'era la partita di Champions League del Milan, la platea televisiva si è ristretta rispetto all'anno scorso... Tutto vero. Ma l'erosione degli ascolti già registrata a sorpresa la prima sera, quando l'imprevisto dei precari e l'attesa della performance di Grillo avrebbe dovuto far lievitare l'audience, è lì a documentare che siamo di fronte a un fenomeno più sotterraneo e di sostanza. Basta prendere il dato di Chi l'ha visto? su Raitre: 9 per cento di share. Cosa significa? Significa che esistono crescenti fette di pubblico prontissime a fare a meno di Sanremo. Pronte a ribellarsi al monopolio dell'Ariston. Basta che ci sia qualcosa di dignitosamente alternativo.

Forse chi ha rinunciato ad andare in onda per non competere con il Moloch del Festival se ne starà pentendo. Tutti gli anni a metà febbraio accade questo: la tv si ferma perché monopolizzata da Sanremo, rito collettivo assoluto, totalizzante, obbligatorio. Si fermano le discussioni e gli interessi alternativi. Sanremo rappresenta il Grande Evento del Consenso: il rito unificante da Prima Repubblica della Tv.

Tutti gli anni questo rito viene attualizzato, aggiornato, modernizzato per quanto possibile, ma senza snaturarsi «perché Sanremo è Sanremo». Un rito egemonico, come fosse una sorta di Democrazia cristiana della televisione che si prolunga nel tempo (l'ultima chance sarebbe metterlo in mano a Fiorello). Le altre televisioni, gli altri partiti del video, accettano di soggiacere a questa egemonia che si riproduce una settimana l'anno. Con la scusa dei sessant'anni della televisione (e i novanta della radio) che coincidono con la storia d'Italia dal dopoguerra a oggi, questa edizione del Festival incarna in modo ancor più esplicito questa ambizione.

L'autocelebrazione della Rai coincide ed esaurisce l'identità del Paese. Basta scorrere la lista degli ospiti. A sorpresa manca solo Pippo Baudo, ma ci ha pensato lo stesso Fazio a evocarlo rispolverando i suoi trascorsi da imitatore.

Per il resto, tutti presenti. In carne e carisma, chi più chi meno. A cominciare da Renzo Arbore, ieri sera, e risalendo all'indietro, Franca Valeri, le gemelle Kessler, il maestro Manzi, Raffaella Carrà, Tito Stagno. Il Festival dei Grandi Vecchi.

Il prolungarsi della Prima Repubblica del video. Una sopravvivenza del passato. Un colossale amarcord.

Solo che, nel frattempo, intorno, tutto è cambiato.

E il Moloch non può che iniziare a vacillare.

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