C’è un pensiero recondito che accomuna forse la maggioranza degli italiani e che dobbiamo avere il coraggio di tirar fuori, come nelle sedute di psicanalisi: ci vorrebbe una dittatura.
Se lo dicono gli italiani sotto voce, in bagno o nella testa loro, perché non credono più, e con ampia facoltà di prova, nella politica. Ci vorrebbe una dittatura non violenta, pensano, ma efficace, composta da trenta tiranni, uno per settore pubblico, sintetizzati poi da una figura che comanda su di loro. Per risanare, tagliare, rilanciare, spazzare e costruire. Questo Paese oscilla tra anarchia e dispotismo perché nel mezzo trova la melma, eufemismo generoso. Dalla prima Repubblica, cioè da vent’anni, la politica non esprime un premier suo ma sempre un papa straniero: Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, Amato, Monti (unica parentesi breve, tramite golpetto, D’Alema). Il pedigree di tutti sei è economico, non politico; negli studi, nel parastato, nelle banche, nell’impresa.
Il piccolo consenso che ha Monti non è merito suo ma per schifo dei partiti; versione incravattata del grillismo. Non gli si rimprovera di governare senza consenso popolare, ma di governare nell’interesse dell’economia internazionale, non della gente, per raddrizzare i conti e non l’Italia. Berlusconi non uccise la politica, sopraggiunse alla sua morte. La prima Repubblica finì con la scelta tra ladri ma capaci e onesti ma incapaci; la seconda finisce con la sintesi: ladri ma incapaci. Discraxiati. Lardo ai giovani, e si piazzò Fiorito. Così la politica finì in Largo Fiorito.
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