Bindi, Vendola e gli irriducibili che mettono veti per restare vivi

I piccoli partiti e la minoranza pd si oppongono alle riforme soltanto per rimanre a galla

Rosy Bindi durante la registrazione di  "Porta a Porta"
Rosy Bindi durante la registrazione di "Porta a Porta"

Roma - Pronti, calcolatore in mano, a trasformare una condizione minoranza in una posizione di potere. Custodi della tradizione politica che gli italiani provarono a cancellare con i referendum pro maggioritario degli anni Novanta. Sono i sacerdoti del veto, felicissimi quando possono passare dalle minacce ai fatti. Prendiamo il caso di Rosy Bindi. Avversaria storica del segretario Pd Matteo Renzi, due giorni fa è uscita dalla commissione Affari costituzionali della Camera annunciando: «Abbiamo la maggioranza». Traduzione: per uno strano gioco di correnti e scissioni, gli equilibri politici della prima commissione di Montecitorio non corrispondono a quelli dell'Aula e delle altre commissioni. Quindi, l'Italicum sul quale si sono accordati Pdl e Pd (partito della Bindi), da qui non passerà. Pronti a sfidare il paradosso tanto da usare contro la nuova proposta di sistema elettorale, proprio quei vizi che la legge Renzi-Berlusconi vorrebbe sradicare. Non è una prerogativa della sola sinistra. Basti ricordare Roberto Formigoni, quando, ancora prima di conoscere la proposta, avvertì Renzi che al Senato, dove la maggioranza sulla riforma è risicata, la legge elettorale sarebbe naufragata, anche grazie al voto segreto. Vizio antico. Il potere di veto è stato il cardine della prima repubblica, è sopravvissuto alla seconda e, a vedere le reazioni dei partiti di fronte all'Italicum, sembra resistere anche alla terza. La liturgia è rispettata. Anche una dura come Bindi, dopo il bastone, dalla sua posizione di maggioranza occasionale, al segretario democratico offre una carota indigeribile. Giù la soglia di sbarramento ora al 5%, su quella del 35% oltre la quale scatta il premio di maggioranza. Poi introduzione delle preferenze e basta liste bloccate. La ex presidente del Pd sa che non potrà ottenere tutto. Ma è sufficiente portare a casa qualcosa, perché non conta il merito. Il veto serve a marcare il territorio. È un modo per regolare conti interni al partito. Falso, assicura Cesare Damiano, esponente della minoranza Pd: «Credo che nella dialettica parlamentare ci siano sempre degli spazi». Il fatto è che in Italia, soprattutto a sinistra, le scelte concrete sono sempre state carte da spendere nel vero gioco, che è la lotta per il potere. Le politiche sono roba da politologi. I veti sulla legge elettorale della minoranza Pd sembra tanto un modo per dimostrare al mondo e ai militanti che loro sono ancora lì, vivi e vegeti. Altri, come Sel di Nichi Vendola, dicono direttamente no. Non voteranno questa proposta. Per gli altri piccoli, ad esempio Scelta civica e anche Nuovo centrodestra, più che veti ci sono tentativi disperati di sopravvivenza. In molti casi armi spuntate, visti i numeri. C'è chi chiede di abbattere la soglia del 5% perché difficilmente raggiungerebbe lo 0,5%.

I Popolari per l'Italia, nati da una scissione del partito di Mario Monti, chiedono un 85% di seggi assegnati con il proporzionale al primo turno e un secondo turno per assegnare gli altri. Il loro Parlamento sarebbe l'inferno dei veti. O il paradiso del pluralismo, a seconda dei punti di vista.

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