Le case restano vuote e vanno a ruba le tende «Qui non viviamo più»

Le case restano vuote e vanno a ruba le tende «Qui non viviamo più»

nostro inviato a Mirandola (Mo)

La Dacia Logan è parcheggiata a fianco del distributore di carburante, i sedili posteriori ribaltati e coperti da un piumino. «Questa è la mia nuova casa», dice il benzinaio. Sua moglie si accontenta della Panda, loro figlio ha piantato una tenda in giardino. «Il terremoto ti entra dentro come un ladro in casa, penetra nell’intimo, ti mette una paura che non ti togli più». La sua abitazione non è danneggiata. «Andiamo a lavarci o preparare da mangiare e se trema si scappa, ma chi si fida a dormire? Non si vive più». Nulla sarà più come prima in questa terra d’Emilia, dove tutti cercavano di archiviare le scosse. Il terremoto è una presenza anche quando la terra non trema, un compagno muto, al quale non ci si abitua. Anche chi non voleva guardarlo in faccia è costretto a farci i conti. Sono queste persone le più impaurite dalla psicosi. A San Possidonio sono tutti in strada, sotto le piante, le autoradio accese. Un uomo al telefonino cerca un albergo per la mamma anziana. «Le badanti non sanno cosa sia un terremoto, sono scappate», spiega. Un altro guarda i resti della stalla, le sedie della cucina servono per annodarvi il nastro del pericolo: «Era uno degli edifici più antichi del paese». I colombi svolazzano impazziti: «Non sbagliano mai, venti secondi prima delle scosse volano via».
Un’anziana viene portata in mezzo ai filari di peri per essere cambiata. Casa sua ha una crepa sotto il tetto, ha resistito, ma nessuno tornerà a dormirci: «È un fatto di testa. Il pianoforte è scivolato in mezzo alla sala e non ho il coraggio di guardare il resto. Dieci giorni fa, di notte, quando mi sono resa conto del terremoto metà scossa era già passata. Stavolta no, le abbiamo sentite tutte dall’inizio alla fine, questa paura chissà quando ce la strappiamo di dosso». I posti più tranquilli sono quelli creati dall’emergenza, le tendopoli. Lì la gente parla, mangia assieme, si fa coraggio, tira avanti. Fuori c’è un mondo confuso. Le pompe di benzina sono prese d’assalto. Nelle strade principali si susseguono le colonne dei soccorsi, le gru dei pompieri, le sirene delle ambulanze. Molte strade secondarie sono chiuse, i cigli hanno ceduto o i crolli le hanno ostruite. I parcheggi dei centri commerciali, deserti da giorni perché i supermercati vacillano, si ripopolano di auto e camper. Nei giardini e nei cortili spuntano i gazebi. A 20 chilometri dall’epicentro la gente fa la fila nei negozi di tende, le scorte si esauriscono in un lampo e i commessi si affannano: «Ne ordiniamo altre».
Le zone industriali si sono popolate di baracchini ambulanti. Panini, piadine, birre, caffè. Fanno affari d’oro perché non temono crolli e riescono a rifornirsi. Fanno prezzi politici «perché non vogliamo speculare sulla tragedia». Uno di loro viene da San Giacomo di Mirandola: «Di solito apro quando fa buio, la notte del primo terremoto ho lavorato come un matto. Io al terremoto non ci faccio neppure caso, sono abituato a muovermi in questo furgoncino traballante, le scosse non mi impressionano.

Stamattina ero a fumare sul terrazzo di casa mia quando ho visto la gente scappare fuori impazzita e ho capito che c’era il terremoto. Ho chiamato un amico che lavora in una pizzeria chiusa e gli ho ordinato le piadine. Dopo un’ora ero a Finale Emilia ed è cominciata la processione di gente. In fondo faccio una specie di servizio pubblico».

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