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Cavalcano vecchie utopie fallite ma gli irriducibili fanno scuola

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Dopo Genova, Milano. Dopo l’attentato al manager Roberto Adinolfi, le parole armate di Alfredo Davanzo, antico brigatista processato in questi giorni per appartenenza alle ennesime «nuove» Br. E poco importa che i nuovi travet della tibia (come li chiamava Giorgio Bocca) vengano indicati nell’area degli anarchici informali. «Viva la rivoluzione, avanti la rivoluzione, questo è il momento buono!» ha gridato Davanzo.
Già, è questo il «momento buono» per i terroristi? Quasi trent’anni fa raccolsi le memorie di Patrizio Peci, il primo «pentito» che, con la sua collaborazione, dette un colpo mortale alle Br. Appartenente all’ala militarista, la lettura storico-politica di Peci era elementare ma corretta: «Credevamo che fosse il momento buono per portare gli operai a fare la rivoluzione»: ovvero pensavano, ingenuamente, che nell’opulenta società italiana degli anni Settanta sarebbe bastato sparare a qualche caporeparto, compiere qualche azione dimostrativa per trascinare le masse alla rivolta. Non avevano considerato - e al ricordo di questo inciampo elementare Peci scuoteva la testa - che gli operai bene-stanti pensavano «alle ferie e alla macchina nuova, mica a fare la rivoluzione».
Oggi, se uno o più gruppi terroristici pensano di nuovo che sia arrivato il momento buono, è perché persino gli imprenditori si uccidono per disperazione economica e attaccano le sedi di Equitalia, simbolo del freddo cuore dello Stato. Pensano, i nuovi terroristi, che se una simile disperazione azzannasse anche le masse degli stipendiati, sarebbe fatta. Credo anch’io che sia pronto a tutto chi, già il 20 del mese, non riesce più a sfamare i figli. Tocca allo Stato, e al suo cuore che non può permettersi di essere sempre freddo, fare in modo che ciò non accada.
Nel frattempo, c’è il rischio concreto che andiamo incontro a un nuovo tempo violento: dopo un lungo periodo dormiente, e dopo i tanti allarmi lanciati dai Servizi, il terrorismo nostrano si è riaffacciato. Proprio per questo bisogna capire in che modo - ideologico e concreto - i nuovi terroristi possono ricongiungersi ai «vecchi», gli irriducibili, che possono fare scuola, trasmettere esperienze e fare proselitismo in ambiente carcerario. Ho finito proprio in questi giorni la lettura di un saggio illuminante, Gli Irriducibili, di Pino Casamassima, pubblicato da Laterza. Finora la storia del partito armato aveva trovato alloggio in libri scritti con l’unico ausilio degli atti giudiziari e della memorialistica consegnata da pentiti e dissociati: mancava una componente fondamentale, quella di chi non ha mai praticato le due forme di abiura.
Ma esiste davvero un’unica categoria degli irriducibili? No. Se infatti lo Stato ha inventato le due categorie collaborative, ha lasciato senza panni giuridici chi ha ripudiato la lotta armata senza ripudiare il passato, cioè il sé precedente, quello di un’altra vita. Quelli non sono «irriducibili»: lo è, invece, chi riprenderebbe immediatamente la lotta armata, come Davanzo. Secondo la legge, per non essere «irriducibile» bisogna diventare un dissociato: una mostruosità concettuale. Senza contare che della categoria morale del pentimento s’è fatto scempio, assegnando la qualifica di «pentito» non a chi si è appena alzato dall’inginocchiatoio di una chiesa, ma a chi ha appena consegnato all’ex nemico gli ex amici.


Tutto ciò non favorisce l’isolamento dei veri irriducibili, una minoranza che dobbiamo riconoscere e isolare anche senza risentirla - e per non risentirla - nelle parole lanciate da una gabbia in un processo che già di per sé dovrebbe appartenere al passato.
www.giordanobrunoguerri.it

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