Forse è stata la figuraccia, la notizia di quel rimborso gonfiato per la casa distrutta finito in tasca, è nelle carte dell'inchiesta, alla cognata. O forse sono state le intercettazioni choc, quelle dell'ex assessore alle Opere pubbliche dell'Aquila, Ermanno Lisi, che parlando con un architetto definisce il terremoto del 2009 - 309 morti, migliaia di senza casa, l'intero centro storico della città ridotto a un cumulo di macerie - «un colpo di culo». Fatto sta però che Massimo Cialente, il sindaco Pd del capoluogo abruzzese, ha gettato la spugna. E così, senza neanche aspettare la conferenza stampa convocata per domani, ha dato l'annuncio: «Mi dimetto».
Un gesto scontato, dopo l'inchiesta «Do ut des» sulle mazzette della ricostruzione in Abruzzo entrata a gamba tesa nella giunta da lui guidata visto che coinvolge anche il suo vicesindaco. Un gesto atteso per domani ma precipitosamente anticipato da Cialente, che sino a ieri - il blitz è scattato mercoledì scorso - aveva cercato di resistere, protestando la sua innocenza (lui non è tra gli indagati). E invece, improvvisa, è arrivata l'accelerazione: «Abbandonare la nave ha detto - potrebbe essere inteso come un gesto di colpevolezza. Ho retto finché ho potuto, ora sparisco per un po'. Chiedo scusa. Ho perso».
Se ne va, Cialente. Senza ammettere alcuna colpa, neanche quella di non essersi reso conto del business che attorno alla ricostruzione della sua L'Aquila martoriata si stava sviluppando. Se ne va, ma sbattendo la porta e prendendosela con tutti. A cominciare dai giornalisti, «macchina del fango», rei di aver raccontato l'inchiesta (citato espressamente il Fatto Quotidiano, che ieri ha pubblicato l'intercettazione choc dell'ex assessore): «Non posso andare da Letta a spiegare cosa succede a L'Aquila. Non posso andare da Letta a dovermi giustificare sulle accuse che hanno fatto alla mia famiglia sui lavori di casa mia, sarei un sindaco senza credibilità». Col governo Letta Cialente ce l'ha a morte. Per le dichiarazioni del ministro alla Coesione territoriale Carlo Trigilia, che in un'intervista all'indomani del blitz della Procura ha detto: «Basta chiedere soldi». Per non essere stato invitato a partecipare, come sindaco, a un incontro sul piano regolatore della città. E per un altro particolare, svelato ieri in conferenza stampa: «Non è mai successo, né con il governo Berlusconi né con il governo Monti che i miei interlocutori non rispondessero al telefono. Ho chiamato più volte ministri e dirigenti di questo governo, ma nessuno mi ha risposto e questo è umiliante, non per Cialente ma per il suo ruolo di sindaco». Dunque dimissioni. Irrevocabili. «Non rimango neppure se me lo dovessero chiedere Renzi (che lui alle primarie non ha sostenuto, ndr) e Letta». Ma ragionevolmente, visto il gelo che ha accolto il suo addio, non glielo chiederà nessuno.
Fa la vittima, Cialente. E attribuisce a un suo gesto provocatorio - la restituzione, nella primavera del 2013, della fascia tricolore di sindaco e la rimozione della bandiera dalle sedi comunali - la mancata firma da parte del capo dello Stato Giorgio Napolitano del decreto in cui, insieme ai fondi per le missioni all'estero e gli esodati, dovevano esserci i fondi per la ricostruzione della città: «Uscito dall'incontro racconta in cui avevamo definito tutto mi hanno telefonato dicendomi che il presidente non avrebbe firmato. A quel punto ho pensato che togliere le bandiere e riconsegnare il tricolore al presidente Napolitano aveva dato molto fastidio».
Determinanti nell'addio di Cialente, comunque, gli «articoli di stampa». E le intercettazioni choc. Altro che l'imprenditore Francesco Piscicelli, che rideva al telefono mentre la terra tremava, il 6 aprile del 2009. Altro che l'ex prefetto dell'Aquila Giovanna Iurato, che rideva, sempre al telefono, ricordando come si era falsamente commossa di fronte alle macerie. Nelle intercettazioni pubblicate ieri dal Fatto è l'ex assessore Ermanno Lisi a parlare con un architetto, Pio Ciccone.
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