Via D’Amelio, i buchi neri dell’inchiesta bis

Via D’Amelio, i buchi neri dell’inchiesta bis

Gian Marco ChiocciMariateresa Conti

Contrordine, si riscrive la storia. Le stragi del ’92 non arrivarono come ritorsione alle condanne definitive dei boss del primo maxi-processo. La mafia, previdente, aveva capito tutto già a dicembre del 91, due mesi prima della sentenza, il 27 gennaio del ’92. E uno di quegli eccidi, quello del 19 luglio in via D’Amelio, esula da quel disegno stragista, perché Borsellino fu ammazzato (al posto di Calogero Mannino) in quanto sapeva della trattativa tra Cosa nostra e pezzi dello Stato, si era messo di traverso ed era percepito da Totò Riina come un «ostacolo». Ecco, la «trattativa». Se era cominciata nel ’91 che c’azzecca avere cercato in tutti i modi di trascinarci dentro Forza Italia, che nascerà solo nel ’94? L’ennesima «svolta» della procura di Caltanissetta che ha portato in cella quattro tra presunti boss (Salvo Madonia su tutti) e gregari (cui viene contestata anche l’aggravante terrorismo) apre più interrogativi della precedente inchiesta flop. Vent’anni fa il vate era Vincenzo Scarantino, marchiato come falso pentito. Oggi è l’ondivago Gaspare Spatuzza. Stendiamo un velo pietoso su Massimo Ciancimino, «icona dell’antimafia» (Antonio Ingroia dixit) bollato come «inaffidabile». A 20 anni di distanza il risultato cambia poco. Per decenni sono stati tenuti in cella degli innocenti, nessun inquirente ha pagato e pagherà mai. Troppi buchi neri c’erano, troppi ne restano. E le nuove conclusioni convincono fino a un certo punto.
«BORSELLINO SAPEVA»
Se come dice il procuratore antimafia Piero Grasso, il giudice Borsellino era stato messo a conoscenza dei contatti con Vito Ciancimino da parte delle Istituzioni, perché tacque? Come mai non denunciò? Perché non tradusse in atti formali, come era suo costume, la sua scoperta?
IL CARABINIERE «MASCARIATO»
Borsellino non solo sapeva, ma si sentiva in un «nido di vipere» e riteneva di avere individuato il «traditore» l’attore del patto scellerato tra Cosa nostra e lo Stato. Lo avrebbe confidato, senza fare il nome, a due magistrati, Camassa e Russo. E sempre il giudice, solitamente schivo a riversare in famiglia le tensioni del lavoro, avrebbe confidato alla moglie Agnese, prima di morire, la notizia che «il generale Subranni (Antonio, ndr) era punciutu (affiliato alla mafia ritualmente, ndr)». Subranni era l’ex capo del Ros. E, come risulta da un’agenda di Borsellino, i due erano stati insieme, pure in elicottero, fino a pochi giorni prima della strage. Se dubitava di Subranni del Ros perché indagò fino all’ultimo a fianco dei Ros di Mario Mori?
I SILENZI DI STATO
«La trattativa vi è stata ed è stata comunicata agli alti vertici dello Stato. La dottoressa Ferraro la comunicò all’allora ministro della giustizia Martelli e venne comunicata anche alla presidenza del Consiglio» (prima Amato e poi Ciampi premier, ndr), dice il procuratore Gozzo. Piccolo dettaglio. I «ricordi» dei vari personaggi istituzionali sono arrivati, a spizzichi e bocconi, con 17 anni di ritardo. Tra questi c’è pure Violante. E solo dopo che Ciancimino ha fatto balenare l’idea di essere a conoscenza di chissà quali segreti. Per chi aveva perso la memoria, solo un buffetto: «Poteva un governo di transizione, che voleva prefigurare una nuova Italia dopo 50 anni di cosiddetta prima Repubblica, permettersi di trattare apertamente con la mafia? Ecco dunque la necessità di agire senza clamore. Ecco dunque il verosimile motivo di tante amnesie da parte di uomini di Stato».
OMBRE SU SCALFARO
Il ruolo dell’ex capo dello Stato nel cambio al vertice del Dap che portò poi all’annullamento del carcere duro per 300 boss sta emergendo chiaro nel processo al generale Mori. Più testimoni lo tirano in ballo. L’ex colonnello Giuseppe De Donno fa giustamente osservare che il Ros non avrebbe mai potuto intavolare da solo alcuna trattativa, che «forse qualcuno all’interno dello Stato stava trattando». Brusca, citando Riina, tira in ballo Nicola Mancino. E non è un caso che De Donno faccia riferimento a Scalfaro, un «politico che, sebbene fosse divenuto presidente proprio in conseguenza delle stragi (Capaci, ndr) e del clima politico che ne era seguito, si era in qualche modo unito al clima ipergarantista» che rischiava di impedire l’approvazione del 41 bis ai boss.
CIANCIMINO PRO MAFIA
Ciancimino jr, la star della tv, viene definito dai magistrati nisseni «inaffidabile» e «bugiardo», il suo bilancio testimoniale, dicono, «sembra essere più favorevole agli interessi di Cosa Nostra che a quelli dello Stato».

Un altro pentito, Calogero Pulci, noto per aver detto falsità sul poliziotto Contrada, va in cella per calunnia. Su Brusca bisognerebbe aprire un capitolo a parte perché sui suoi «sentori» dell’epoca, e sui suoi aggiustamenti in corso d’opera, s’è basata gran parte della nuova indagine.

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