Roma - Per essere una vittoria trionfale della (non) macchina da guerra del Pd, tira un’aria davvero strana. Il segretario Pier Luigi Bersani - un morto che cammina, secondo Grillo - sembra avere i nervi a fior di pelle. La rivendicazione orgogliosa dell’«avanzata inarrestabile» assume, il giorno dopo, i contorni più sfumati di un’avanzata nella steppa lasciata deserta. Come un Napoleone alla campagna di Russia, come la Panzerdivision a 30 chilometri da Mosca, il Pd pensa di aver vinto e di essere a un passo da Palazzo Chigi, e non sembra accorgersi che il territorio in cui si sta inoltrando è infido e minaccioso: più da ritirata strategica che da resa incondizionata, più da trepida attesa del Generale Inverno che del Bersani premier.
Grande è il disordine sotto il cielo del centrosinistra ma, non essendo Mao, Bersani neppure saprebbe come giovarsene. Il dato delle astensioni fa intuire che alle urne sono mancati molti elettori del Pdl, molti della Lega, moltissimi delusi. Dunque i quozienti che hanno consentito le vittorie assai scarsi. E se gli elettori hanno preferito non rivolgersi al Pd, ci dovrà essere pure qualche buon motivo. Circostanza che non sfugge all’ingegner Carlo De Benedetti, sconcertato dalle parole di Bersani su una vittoria «senza se e senza ma». A lui non sembra affatto. Si tratta di «un buon risultato», precisa, con una peculiarità: «Dove il Pd ha vinto, è stato con candidati diversi dalle intenzioni. Non si può infatti ascrivere al Pd né la vittoria di Orlando né quella di Doria».
Per essere una «vittoria senza se e senza ma», neppure gli alleati con i quali il Pd dovrebbe cantar vittoria se la bevono. Per esempio, Nichi Vendola, pressante nel chiedere che l’alleanza smetta di essere un «ibrido», come a Palermo. Dove, infatti, s’è perso e male. Gongolano i dipietristi e Leoluca Orlando, il più votato, non può dimenticare. La memoria deve continuare a proporgli le immagini di D’Alema e «compagni» venuti a portargli la guerra in casa. Da ultimo, Leoluca se la prende con la presidente pidina Bindi: «Vogliamo dire a Rosi Bindi che il Pd a Palermo non mi sosteneva? A Palermo Pd e Sel hanno perso, schierandosi contro una candidatura che era alternativa e sostenendo invece Lombardo». Alla faustiana stagione dell’eterna giovinezza, Orlando si fa paladino del nuovo, operazione che gli era riuscita già nel ’93, quando da dc era riuscito a trascendere nel campione del movimentismo, della «Rete» e della Seconda Repubblica. «Da Palermo arriva la denuncia dell’insufficienza attuale del sistema dei partiti - aggiunge il sindaco palermitano -: io ho preso il 75 per cento e non c’è un’altra città dove ci sia stato uno scarto simile. Interroghiamoci quindi sulla capacità dei partiti di interpretare un cambiamento. Io ho fatto un passo indietro rispetto alla casta e questo è stato apprezzato».
Già, ma la casta non ha orecchie assai sensibili e rischia di trovare in Bersani il capro espiatorio di una sordità ben più generale. Rischio di cui è consapevole De Benedetti: «Tenuto conto delle dichiarazioni di vittoria non vorrei che nel centrosinistra non ci si rendesse conto della profonda frattura tra i cittadini e la politica. Anche il Pd deve cambiare per recuperare il dialogo con i cittadini». Lo capirebbe anche un bambino, e l’eterno «enfant prodige» Enrico Letta non lo è più da un pezzo.
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