La "Ditta Pd" chiude per lutto. Ora comanda solo il padrone

Un bersaniano: "Tutto quello che tocca diventa oro, che cosa dovremmo fare noi?". Ma il "brand" non durerà

La "Ditta Pd" chiude per lutto. Ora comanda solo il padrone

L’ex spin doctor di Bersa­ni, Miguel Gotor, la di­ce così: «Finché soffia il vento, non si può che seguir­lo». Il vento è quello che soffia nelle vele di Matteo Renzi, i suoi seguaci- alquanto sballot­tati dalle raffiche- sono le diver­se anime della minoranza Pd. Il variegato fronte anti-renziano (bersaniani, lettiani, cuperlia­ni, civatiani, giovani turchi e chi più ne ha più ne metta) che, al di là dei propositi bellicosi enunciati dai più irruenti, tipo Stefano Fassina, si è quasi rasse­gnato ad un’idea tutta nuova, a sinistra: la “Ditta” è stata chiu­sa, e oggi il Pd si sta trasforman­do nel partito del leader. Anni passati a dire peste e vi­tuperio del «partito padronale» di Berlusconi, ad esorcizzare l’idea blasfema dell’«uomo so­lo al comando », a rivendicare la diversità della sinistra, «noi sia­mo una comunità, il Pd non di­venterà mai la salmeria del ca­po », come avvertiva Bersani. E ora tutti lì muti ad ascoltare Ren­zi che spiega che alle Europee no, ma alle prossime elezioni politiche il nome sulla del lea­der sulla scheda ci sarà ecco­me. E che chiede - e vince - la conta sulle sue proposte, «pren­dere o lasciare». «E che dovremmo fare?»,si in­terroga un bersaniano pronto alla pugna come Nico Stumpo, regista della macchina schiac­ciasassi delle primarie 2012, perse da Renzi. «Quello è come Re Mida, ciò che tocca si trasfor­ma in oro, le cose più indigeste diventano appetitose: chi sa­rebbe così scemo da mettersi di traverso?».

Certo, i tentativi di frenare l’avanzata del premier e delle ri­forme a getto continuo che in­tende portare a casa ci sono, ma assai meno convinti di come ap­paiano. La sinistra Pd vuole fa­re una bandiera della sua oppo­sizione al decreto Poletti sul la­voro, cercando una sponda identitaria nella Cgil. Avverte che «in commissione Lavoro siamo maggioranza noi», e che il presidente Cesare Damiano farà scudo col suo corpo contro le «forzature» del governo. «Co­sì com’è il decreto non passa, questo è poco ma sicuro», tuo­na Guglielmo Epifani che, da buon sindacalista, sa che biso­gna entrare in una trattativa suonando la grancassa, per po­ter sbandierare come conqui­sta il poco che si ottiene. Come stiano in realtà le cose lo dice, a taccuini chiusi, un cuperliano: «Renzi si è appositamente la­sciato dei piccoli margini di trat­tativa, ce li concederà e noi can­teremo vittoria annunciando di aver ottenuto grandi passi avanti. Poi voteremo con lui». D’altronde, fa notare il giovane turco Matteo Orfini, «a tirar troppo la corda si rischia pure di passare per i conservatori che ostacolano le riforme e ne­gano il lavoro ai giovani», an­che perché è chiaro a tutti che Renzi non avrebbe remore a muovere l’accusa ai suoi com­pagni di partito. Anche sulla ri­forma del Senato, araba fenice dell’ultimo ventennio, i margi­ni di manovra per ostacolarla non sono proprio autostrade. «Ci sono buone possibilità che si faccia nei tempi previsti», am­mette Gotor, «anche perché sui tre paletti posti da Renzi (il Se­nato non voterà più la fiducia, sarà a costo zero e non elettivo, ndr ) la maggioranza del Pd ci sta, e un aggiustamento che metta tutti d’accordo è possibi­le ». Ad esempio,spiega,sull’elet­tività è possibile un compro­messo che veda i senatori eletti nelle liste dei Consigli regiona­li, e quindi comunque «a costo zero».Martedì si riuniscono (se­paratamente) i bersaniani e i «turchi», il 12 aprile i cuperliani chiamano a raccolta tutte le aree per discutere di «dove va il Pd».

In realtà, a dividere le cor­renti è innanzitutto una cosa: chi si intesterà il ruolo di interlo­cutore del leader, entrando nel governo del partito? Perché una cosa è chiara a tutti: per il momento, il Pd va dove dice Renzi.

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