Altro colpo alla credibilità della giustizia italiana che condannò a quattro mesi di reclusione Maurizio Belpietro (ai tempi in cui dirigeva Il Giornale) per avere pubblicato un articolo di Lino Jannuzzi, considerato diffamatorio. La solita storia. Il responsabile della testata che paga per errori altrui. Si dà però il caso che stavolta qualcuno abbia detto no alla barbarie tollerata dal potere legislativo, talmente insensibile ai problemi della libertà di stampa da non avere mai modificato, causa inettitudine e accidia, le norme del codice penale. È stata la Corte europea dei diritti dell'uomo a stoppare la sentenza iniqua, accogliendo in pieno il ricorso - inoltrato a fari spenti - di Belpietro, indignato e offeso per il trattamento subìto.
La Corte di Strasburgo, fra l'altro, non è neppure entrata nel merito della questione giudiziaria, ma ha ribadito un concetto assimilato da tutti i Paesi democratici (non solo europei) tranne che dal nostro, essendo guidato da trogloditi. In sostanza, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre.
La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali.
La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato.
Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi.
Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.
È un'accusa pesante nei confronti di senatori e deputati di ogni partito che si sono avvicendati nella costituzione della varie maggioranze a sostegno degli esecutivi di destra e di sinistra, indifferentemente. Gente priva di coscienza e rivelatasi non all'altezza di rappresentare degnamente il popolo italiano nonché incline a badare ai fatti propri - di tasca - e a trascurare gli interessi del Paese, di cui i mezzi di comunicazione sono i principali interpreti. In termini volgari e crudi, l'Italia ha un potere legislativo che legifera soltanto in funzione della propria sopravvivenza nel Palazzo e sorvola sui principi fondamentali della democrazia, che non è tale se i giornalisti hanno paura (della cella) a raccontare i fatti e a esprimere pensieri forti e/o scomodi.
La realtà nazionale nel campo dell'informazione è tragica. Basti ricordare ciò che è accaduto ad Alessandro Sallusti, arrestato per un articolo non scritto da lui; a Giorgio Mulè e ad alcuni suoi redattori, condannati alla prigione per avere divulgato quella che ritenevano fosse - e forse era - la verità. Episodi recenti e meno recenti che hanno mobilitato le Camere, a ferro caldo, e che poi sono stati dimenticati. Senatori e deputati, cioè, hanno fatto finta di prendersi a cuore la delicata quaestio, istituito commissioni e vergato proposte di riforma della legge, ma non sono stati capaci di andare oltre le buone intenzioni.
Talché l'abolizione del carcere per la nostra categoria è tuttora lettera morta e le pratiche inevase giacciono in fondo a un cassetto, con tanti saluti alla libertà di stampa. Siamo la maglia nera dell'Europa anche in materia di riforme non onerose.
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