Ironie, sberleffi, insulti. La rete in tilt. Tutti contro Carlo Giovanardi sullo sfondo di una tragedia italiana: la morte di un ragazzo di 31 anni, Stefano Cucchi, al Pertini di Roma. Era il 22 ottobre 2009, Cucchi era stato arrestato una settimana prima per droga. La sua faccia sfigurata, si disse allora dalle botte degli agenti, fece il giro d'Italia, icona politicamente corretta di un Paese che quando vede le divise immagina sempre trame oblique, violenza di Stato, G8 in salsa genovese, pestaggi alla maniera della caserma Diaz. Giovanardi, allora sottosegretario del governo Berlusconi, andò contro questa versione con parole ruvide e fu crocifisso da una moltitudine di benpensanti. Giornalisti, scrittori, politici, tutti pronti a puntare il dito contro di lui, contro il suo linguaggio durissimo, privo all'apparenza di pietà e di rispetto per un morto. Matteo Renzi, moderato pure in quell'occasione, arrivò a chiedere davanti alle telecamere di Porta a porta le dimissioni del sottosegretario.
Sono passati gli anni, il caso Cucchi è una ferita non rimarginata e resta, comunque lo si guardi, una tragedia che atterrisce. Ma i lati del dramma, almeno a sentire la requisitoria dei pm che l'altro giorno hanno chiesto una sfilza di condanne per quel che accadde in quelle ore, sono assai diversi. E la verità dei pm si avvicina fino a sovrapporsi a quella dell'eretico Giovanardi. Perché morì Cucchi? I pm fanno a pezzi la cartolina cilena, le botte assassine, lo squadrismo delle forze dell'ordine. Il pestaggio ci fu, ma le ferite furono «modeste anche se dolorose». Soprattutto, le ferite «non sono una concausa della morte ma hanno una valenza occasionale». Cucchi, insomma, morì di fame e di sete, morì perché fu abbandonato nel suo letto d'ospedale, morì perché non voleva curarsi e invece doveva essere assistito. Ritornano in mente le parole di Giovanardi: «Cucchi era già stato ricoverato 16 volte, Cucchi non era un ragazzo sano e sportivo ma un tossicodipendente e uno spacciatore». Ed è giusto dare spazio al punto di vista di Giovanardi: «Cucchi non può essere impugnato, così come s'impugna una bandiera, per sventolare la cattiva coscienza degli apparati di potere. Mi spiace dirlo, ma non è andata come ci hanno fatto credere. Io sono stato linciato per aver detto la verità». Certo, non fa piacere questa battaglia sulle spoglie mortali di un ragazzo, ma sono i pm ad avventurarsi in affermazioni scomode, anzi urticanti. Vere e proprie rasoiate contro il senso comune, almeno con il senno di poi: «Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi»; di più: «C'è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo». Insomma, se le parole hanno un senso, la morte di Cucchi viene letta dall'accusa come un atto collettivo di sciacallaggio. Solo che lo sciacallo non era Giovanardi con le sue frasi sgradevoli e magari inopportune; no, occorre voltarsi dall'altra parte. Quella verso cui nessuno si gira nel nostro Paese. E c'è una frase che fa a pezzi la vulgata popolare, accettata e rilanciata dai media per mesi e mesi: «Non ci sono elementi per collegare la morte alle lesioni».
Cade tutta un'impalcatura ideologica. Vanno in pezzi pregiudizi antichi e affonda il pensiero dominante, quello che aveva già risolto il caso ancora prima di affrontarlo, infilandolo nell'album nero che comincia con Piazza Fontana, la morte di Pinelli e le presunte torture inflitte da carabinieri e poliziotti a tanti poveri innocenti. Molte di quelle pagine, alla prova processuale, devono essere strappate, fra le proteste e l'indignazione. Lo stesso copione di oggi, con la famiglia che si ribella e la sorella di Cucchi, Ilaria, candidata sfortunata nella sfortunatissima lista Ingroia, lesta a prendersela proprio con i pm.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.