Eutanasia o accanimento il dilemma del veterinario

Di fronte a casi estremi, bisogna scegliere la strada meno dolorosa per gli animali. Armati del coraggio di rifiutare la “dolce morte”

Eutanasia o accanimento il dilemma del veterinario

Un sottile confine divide la vita dalla morte e, ogni giorno, noi veterinari siamo chiamati a decidere se è giusto aiutare un animale ad attraversarlo. Sta a noi consigliare il proprietario che, per il compagno fedele della sua vita, è giunto il momento di attraversare quella linea oppure di convincerlo che c'è ancora tempo, c'è ancora una speranza esile come un filo, ma forte come se fosse d'acciaio. Ci s'iscrive a Medicina per cercare di salvare vite umane ma, davanti alla malattia incurabile e devastante, leggi vergognose costringono a centellinare persino la morfina a pazienti che chiedono una via d'uscita da quell'inferno in Terra.
Nel caso dei medici veterinari invece, essi hanno facoltà di risparmiare ai propri pazienti gli ultimi giorni di una vita permeata solo da un dolore inconcepibile. Il veterinario si trova a studiare la vita per poi essere costretto, in molti casi, a dare la morte. Quando mi tocca, io sono sereno, perché tolgo una vita dall'inferno, ma molti non reggono la contraddizione. Questa, dicono gli psicologi, è una delle motivazioni per cui la professione veterinaria è quella che si aggiudica la palma del maggior numero di suicidi e una di quelle in cui l'alcol è chiamato troppo spesso a sopire ferite laceranti.
Ogni veterinario ha una sua galleria personale di quadri. Sono le storie degli animali che, nel bene e nel male, gli hanno lasciato un segno nel cuore. Oggi voglio raccontarvi la storia di Tabù. I tre ragazzi rientravano a casa attraverso il campo incolto. «Zitti» disse il più grande «sentite anche voi?». Era un lamento sommesso e continuo e sembrava provenire dal canale a lato del campo. Tra rami, foglie, detriti e fango lo videro. Era un cane bianco, alzava lentamente la testa, che poi abbandonava a terra incapace di sostenerla. Venti minuti e i due vigili del fuoco lo tirarono fuori con cautela dal fossato. Un'ora o poco più e avevo sul tavolo da visita Tabù, così si chiamava il cane e il suo proprietario, identificato attraverso il tatuaggio.
Era un setter inglese di 8 anni e il padrone, un cacciatore ormai in procinto di appendere al chiodo il fucile. Eseguite le procedure salvavita, cominciammo a fare una valutazione dei danni subiti che erano di notevole entità. Una zampa da amputare, frattura della mandibola e incrinatura della mascella, sei costole rotte, due vertebre lesionate e un bacino fratturato.
«Lo sapevo che non dovevo portarlo vicino ai binari» rifletteva a voce alta il proprietario. Aveva liberato Tabù in un prato dove corrono i binari di un treno intercomnunale. Improvvisamente, una lepre si era messa a correre ed era saltata al centro dei binari dove il cane l'aveva seguita. I richiami del proprietario non erano valsi a nulla e, ben presto, Tabù usciva dalla sua vista, là dove la vecchia ferrovia faceva una curva. Pochi secondi dopo, l'uomo vide il treno ed ebbe un presentimento che si rivelò poi vero. Cercò Tabù per tre giorni senza risultato. Recatosi nella piccola stazione, apprese dal macchinista che la lepre aveva scartato, all'ultimo momento, il cane no. «Mi spiace, ma anche una frenata rapida non sarebbe servita» gli disse il ferroviere.
Nonostante le gravissime lesioni io vedevo in quegli occhi, ancora vigili, una gran voglia di vivere. Questo non te lo insegnano all'università. È un sesto senso innato. Lo puoi avere o no. Chi lo possiede, guarda negli occhi un animale malato e intuisce se vuole farcela o se non vuole più lottare.
Fu dura, ma convinsi il proprietario a fidarsi di me.

Ci volle un mese per rivederlo camminare, anche se su tre zampe. Quando entrava in sala d'aspetto, si sedeva e porgeva l'unica zampa anteriore a tutti, per ringraziare. Morì all'età di 13 anni.
Se entrate nella mia galleria, Tabù è il primo quadro, là in alto a destra.

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