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Fassino non ha una banca e neppure i soldi del Cav

D'altronde, cosa pretendeva Piero Fassino? I giudici di primo grado, che pure avevano condannato i fratelli Silvio e Paolo Berlusconi per avere divulgato i suoi incauti entusiasmi telefonici per la conquista della Banca nazionale del lavoro, lo avevano messo nero su bianco: quella frase di Fassino, «abbiamo una banca», pubblicata sul Giornale, è «significativa della capacità (...)

(...) della sinistra di fare affari e mettersi a tavolino coi poteri forti, in aperto contrasto con la tradizione storica, se non di quel partito, quanto meno dell'orientamento del suo elettorato». Insomma, la fuga di notizie aveva alzato il velo sull'animo affaristico dei Ds. E così non c'è da stupirsi se ieri, per la seconda volta, l'ex segretario della Quercia, e oggi sindaco di Torino, vede sfumare il supergruzzolo che puntava a intascare come vittima della macchina del fango. Aveva chiesto ai fratelli Berlusconi un milione di euro. Deve accontentarsi di ottantamila. Che per un italiano qualunque sarebbe come vincere alla lotteria. Ma per Fassino ha il sapore di una cocente delusione.
È lì, nella bocciatura quasi integrale delle pretese risarcitorie del sindaco torinese, la vera novità della sentenza d'appello che ieri chiude anche in secondo grado (e forse per sempre) la vicenda iniziata tra il Natale del 2005 e il Capodanno seguente, quando sulla prima pagina del Giornale approdarono le intercettazioni in cui la Guardia di finanza si era imbattuta indagando su Giovanni Consorte, rais dell'assicurazione rossa Unipol, e il suo tentativo di conquistare la Bnl. Intercettazioni non ancora trascritte, ma che gettavano un fascio di luce sui rapporti sotterranei tra la Quercia e certa finanza. Intercettazioni che per la Procura di Milano dovevano restare segrete: infatti, caso più unico che raro, partì una caccia serrata ai colpevoli della fuga di notizie, sbagliando completamente pista. E solo per caso, anni dopo, la banale verità iniziò a saltare fuori. Erano stati i tecnici delle intercettazioni a portare in regalo il nastro di Fassino a Paolo Berlusconi, sperando così di ingraziarsi lui e suo fratello Silvio.
Ieri, i due fratelli Berlusconi sono usciti incolumi dal processo d'appello. Le condanne per violazione di segreto d'ufficio che erano state loro inflitte in primo grado (un anno a Silvio, senza condizionale, e due anni e due mesi a Paolo) si sciolgono nella prescrizione, che - a otto anni dai fatti - ha inevitabilmente coperto tutto. «Leggeremo le motivazioni e poi decideremo se ricorrere in Cassazione per ottenere la piena assoluzione», dice Federico Cecconi, legale di Berlusconi junior insieme a Piero Longo. E lo stesso farà Niccolò Ghedini, difensore del Cavaliere, che ha sempre negato di avere mai ascoltato il nastro che graziosamente gli veniva offerto, e tantomeno di avere mai mosso un dito per pubblicarlo sul Giornale. Ma per i giudici di primo grado il suo «concorso morale» era dimostrato dalla sua leadership: «La sua qualità di capo della parte politica avversa a quella di Fassino rende logicamente necessario il suo benestare alla pubblicazione della famosa telefonata non potendosi ritenere che senza il suo assenso quella telefonata, che era stata fatta peraltro ascoltare a casa sua, fosse poi pubblicata», aveva scritto il giudice Oscar Magi nelle motivazioni.
Prova logica o teorema? La querelle, in attesa di eventuale ricorso in Cassazione, viene disinnescata dal proscioglimento per prescrizione pronunciato ieri. Dell'inchiesta, nata dalle rivelazioni di un amico degli intercettatori, rimane solo l'amara vittoria di Fassino. Quella mancia di ottantamila euro concessa all'ex leader diessino riconosce che l'intercettazione era ancora segreta, e pertanto non poteva essere legalmente pubblicata: considerazione inoppugnabile, anche se non si può dire che venga universalmente applicata.

Ma riconosce anche che quelle frasi il povero Fassino le aveva dette davvero, e che la figuraccia davanti al popolo dei militanti l'aveva fatta per colpa sua.

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