Dimissioni Papa Benedetto XVI

Da figlio di una cuoca a operaio nella vigna di Cristo

A 16 anni fu mandato a scavare le trincee. E dopo aver disertato, finì in un lager nazista Poi gli studi col fratello Georg e la nomina a cardinale. Fino alla successione di Wojtyla

Che le dimissioni del Papa fossero da attendersi è dire troppo. Che ce ne fossero le premesse, è la pura verità. Ci sono uomini cui il destino dà più di quanto loro non desiderino e Joseph Ratzinger non avrebbe mai voluto essere il successore di Pietro.
Il peso dei suoi quasi ottantasei anni - ingravescentem aetatem - cui il Pontefice si è riferito per spiegare il gesto, è solo un motivo aggiuntivo. Già quando, ancora settantenne, la sua crescente fama faceva pensare che sarebbe potuto succedere a papa Wojtyla, Ratzinger voleva tirarsi indietro. Quante volte negli ultimi anni del lungo regno di Giovanni Paolo II, il suo prezioso collaboratore bavarese gli aveva chiesto il permesso di ritirarsi a vita privata? Decine, dicono i bene informati. Avrebbe voluto - dopo diversi lustri in Vaticano, in cui si era trasferito da Monaco nel 1982 - tornare in Germania a scrivere libri, lasciando i gravosi compiti romani: quello di decano del Collegio cardinalizio e di prefetto della Congregazione per la fede (ex Sant'Uffizio).

Ah, ristabilirsi tra i verdi prati in vista delle Alpi, anche a costo di passare tre quarti dell'anno sotto l'ombrello, ma senza il peso degli incarichi e accanto a Georg, il fratello maggiore. Quella era la vita cui ambiva e che ora, dopo un decennio fantastico ma che gli era sfuggito di mano, potrà finalmente realizzare. Fu Wojtyla, che lo voleva assolutamente al suo fianco, a forzarne la volontà, insistendo perché restasse a Roma e conferendogli, con la sua fiducia, quel prestigio che lo ha poi portato sul trono di Pietro. Finché, con la decisione di ieri, la natura umana di Ratzinger ha avuto il sopravvento sui progetti celesti.
Benedetto XVI fu eletto dopo soli due giorni di conclave, al quarto scrutinio, il pomeriggio del 19 aprile 2005. Si presentò al balcone, dopo l'Habemus Papam, incerto e intimidito, con l'aria di chi aveva assistito al verificarsi di ciò che più temeva. «Fratelli e sorelle - disse -, dopo il grande Papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore della vigna del Signore». Nessuna falsa modestia, ma la percezione esatta che il neo papa aveva di sé. Pochi giorni prima, nell'omelia funebre del suo predecessore, Joseph aveva detto di lui con l'ammirazione sincera di chi intuiva che mai avrebbe saputo seguirne l'esempio: «Grazie a un profondo radicamento in Cristo, il Papa ha portato un peso che va oltre le forze puramente umane». Un radicamento in Cristo che è un dono di Dio e che il pontefice dimissionario dichiara adesso - umile e leale - di non possedere nello stesso grado.

Joseph è nato nel giorno di sabato santo del 1927 in un paesino della Baviera orientale, Marktl am Inn, che già dal nome - Mercatino sull'Inn - evoca la paciosità di un borgo rurale. Suo babbo, che si chiamava come lui, era graduato della gendarmeria locale, la mamma una cuoca d'albergo. Nonostante i modesti mezzi finanziari della famiglia, i due fratelli furono messi in seminario a pagamento, precocemente incanalati nel loro futuro. Si frapposero però la guerra e la regola nazista che obbligava l'arruolamento nella Hitlerjugend dei giovani a partire dai quattordici anni. Il sedicenne Joseph, fu assegnato all'artiglieria contraerea in difesa del complesso Bmw, poi alle intercettazioni telefoniche, infine allo scavo di trincee. Durante una marcia, il ragazzo disertò. Riacciuffato, scansò per un pelo la fucilazione con la fuga propiziata da un sergente. A Germania atterrata, il futuro Papa fu, come tanti sbandati, imprigionato dagli Alleati e recluso per alcune settimane in un lager.

Tornato in seminario, divenne prete a 24 anni, nel 1951, insieme a Georg. Quattro anni dopo, presentò una tesi su San Bonaventura, per l'abilitazione all'insegnamento di Dogmatica nell'Ateneo di Frisinga. Il lavoro fu bloccato dal relatore che la giudicò «pericolosamente modernista», per eccesso di «soggettivazione». Un'accusa che nel mondo cattolico tedesco suona come un cedimento alle sirene protestanti. Il mansueto Ratzinger si piegò all'insegnante e modificò la tesi, ottenendo il titolo. Per un decennio, insegnò in diverse università e, nel 1962, si affacciò per la prima volta a Roma, nell'officina del Concilio Vaticano Secondo. Era al seguito del cardinale di Colonia, come suo consulente teologico. Acuto, progressista e rigoroso insieme, si fece un nome tra le porpore. Chiuso il Concilio, tornò all'insegnamento tedesco ma con ormai un piede stabile nella Città leonina. Paolo VI, nel 1977, lo nominò arcivescovo di Monaco e Frisinga e, poco dopo, cardinale. Così, alla sua morte, il neo porporato partecipò al primo dei suo tre conclavi con l'elezione di Papa Luciani. Quaranta giorni dopo, Joseph entrò nuovamente nella Cappella Sistina per l'elevazione di Wojtyla. Il rapporto tra i due mitteleuropei fu di affinità e il legame di ferro. Fosse stato per l'affetto, Ratzinger avrebbe preso lo stesso nome pontificio del predecessore. Ma non volendo per venerazione paragonarsi, assunse quello di Benedetto, ormai in disuso. L'ultimo era stato Benedetto XV (Della Chiesa), il Papa della Grande guerra, che bollò come «inutile strage». Ed è proprio a questo atteggiamento che Ratzinger si è collegato chiarendo che la sua prima aspirazione era la pace.

Joseph sarebbe stato il Papa perfetto di un mondo armonico. Ama Mozart e i due gatti suoi conviventi nell'appartamento vaticano. È fedele al passato, tanto che nello stemma ha voluto i simboli di quando era arcivescovo di Frisinga: il Moro, emblema dell'Universalità della Chiesa e l'Orso che uccise il cavallo col quale San Corbiniano si stava recando a Roma e che, rimproverato dal sant'uomo, si caricò per espiazione i bagagli portandoli fino alla Città eterna. Ha sfoggiato meravigliosi abituati rituali, meritandosi nel 2007 il titolo di Uomo più elegante del mondo. Appena eletto, abolì il concerto di Natale in Vaticano. Il primo anno, limitandosi a non assistere, con gran dispetto di Ron, Laura Pausini e altri artisti. Dal 2006, facendo emigrare altrove il concerto. «Il papa non ama il pop», fu la spiegazione.

Il mondo dei suoi anni di regno, non è stato però quello dell'ordine, ma delle sfide. Ratzinger ha combattuto il relativismo e il relativismo è dilagato. Ha chiesto scusa per i preti pedofili e un tribunale del Texas l'ha imputato, tanto che gli Usa hanno dovuto concedergli l'immunità per esentarlo dal processo. Per moralizzare, ha vietato l'accesso ai seminari a chi «pratica l'omosessualità» e i gay lo hanno vituperato. Ha perdonato i vescovi lefreviani, per riconciliarli alla Chiesa, e si è trovato contro la comunità ebraica, poiché uno tra loro negava la Shoah. Ha steso la mano all'Islam che, però, per poco non gli lanciava una fatwa per una citazione vecchia di secoli. Ha dichiarato il suo amore speciale per l'Italia e l'Italia gli ha negato l'aula dell'Università di Roma per un discorso.

Finché, stanco, il Papa venuto dal Paese dei Superuomini è tornato uomo tra gli uomini.

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